Perché Dio chiama le persone quando sa che gli diranno di no?
Dio invia segnali agli uomini per chiamarli al suo progetto di salvezza, nel contesto della divina onniscienza e del libero arbitrio umano. Immagino una persona che sente la chiamata al sacerdozio ma per un motivo o per l’altro liberamente decide di rispondere negativamente a questa chiamata non rispettando il progetto che il Signore aveva su di lui.
Dunque mi chiedo: il Signore, essendo onnisciente, oltre a prevedere con certezza il futuro, ci conosce alla perfezione, quindi sapeva per certo che questa persona avrebbe risposto negativamente alla sua chiamata, quale sarebbe perciò il senso di avergli inviato dei segnali per chiamarlo quando già prevedeva che non avrebbe risposto? Per esempio se io conosco bene una persona e so per certo che non potrei mai convincerla a fare una certa cosa, ovvio che non ci provo nemmeno. Forse il Signore vuole comunque portarci a conoscenza del suo progetto su di noi mettendoci davanti alla scelta concreta? Non riesco a risolvere la questione…
Francesco
La faccenda si risolve male perché la logica di Dio non è la nostra. Comunque qualche affinità e qualche analogia si trova anche nei comportamenti umani.
Quante volte vengono persone a chiedere consiglio e noi ne diamo abbondanti, anzi, spesso ci spendiamo ore di conversazione pur sapendo che l’altro farà di testa sua? Quante volte un genitore invita il figlio a fare quello che gli dice pur sapendo che il figlio non lo farà mai? E quando Gesù ha chiamato tra i suoi apostoli Giuda che lo avrebbe tradito, perché lo ha chiamato?
Mi sembra che questa interrelazione tra persone sia un dato di fatto della comportamentistica umana. Io esprimo quello che ritengo più opportuno all’altro perché l’altro in qualche modo è parte di me, della mia vita, del mio esistere e perciò delle mie attese, desideri, comunicazioni. A volte si dice con convinzione: io ti vedrei bene a fare l’impiegato e l’altro poi fa il militare, magari sbaglia e si trova male e noi sapevamo che mai avrebbe fatto l’impiegato, tuttavia glielo abbiamo voluto dire perché è parte della nostra vita sia come impiegato sia come militare, e ci fa piacere dirgli: te l’avevo detto io!
Sono tutti esempi che possono rispondere agli esempi portati dal lettore. Penso però che il lettore se fa questa domanda è perché ha in mente che se Dio chiama uno al sacerdozio e questi dice di no, Dio glielo imputi come colpevole disobbedienza. Senza questo preconcetto la questione migliora, perché se Dio chiama uno a fare il prete e l’altro dice di no, costui lo può fare perché è libero di farlo. Dopo di che potrebbe essere un ottimo cristiano e magari santificato come padre di famiglia.
Dunque, se Dio chiama significa che non ordina, ma è una proposta alla quale uno può dire sì o no liberamente, cioè senza andare all’inferno. Quando Dio vuole che uno dica di sì, i sistemi li ha e anche convincenti: si pensi a Geremia «nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo»; si pensi a Giona che fu riportato indietro dal pesce. Costoro tentarono di dire no a Dio, ma Dio in quel caso voleva che obbedissero. La chiamata di Dio quindi è come quella di un impresario che ha una fabbrica e gli serve un operaio, fa la proposta a chi gli sembra adatto e se questo dice di no, ne cerca un altro. Se poi ce lo vuol costringere troverà i mezzi per farlo.
Il lettore però si chiede che senso abbia tutto ciò quando Dio sa perfettamente che l’altro dirà di no. Oltre la logica della comunicazione, di cui sopra, Dio ti fa sapere che ti riteneva adatto a quel lavoro. Te puoi dire di no, ma ora sai anche che Dio aveva messo gli occhi su di te, e questo se non te lo diceva non lo avresti saputo. Un giovane può dire a una ragazza che l’ama, e sa benissimo che quella dirà di no perché è già sposata e sta bene con lo sposo, tuttavia glielo ha detto e lei sa che c’è un’altra persona che la ama. Sapere di attenzioni altrui è molto importante per ogni persona umana. Poi ciascuno ci fa quello che vuole: ma lo sa! E Dio si muove in questa logica (penso e spero) perché è partecipe della nostra vita e della nostra esistenza.
Gesù ci dice che è il nostro «Abbà-babbo» (si noti: non padre, ma il babbo che ci ha generato) e perciò è interessato a quello che facciamo e ci dice quello che di noi pensa, desidera, richiede, allo stesso modo di come ci perdona, ci sopporta, ci richiama all’ordine. E Gesù ci spinge a entrare in questo modo di fare con il nostro Abbà-Babbo, di non sentirlo, come dicono i filosofi della religione, il numinoso, il tutt’altro, l’indicibile, ma di vedercelo intorno alla nostra vita come fa la mamma colla quale ci si abbraccia per il bene che le vogliamo e ci si bisticcia quando vogliamo fare di testa nostra, ma non si perde l’amore di fondo perché è nostra madre, la nostra vita. E Dio fa lo stesso, ci viene a dire quello che pensa e noi possiamo una volta dire di no e l’altra pure, ma è necessario sapere e sentire questa presenza vitale, amorosa, interessata, perché altrimenti la nostra fede, la speranza, il coraggio per il bene e per la santità si perdono per strada. Allora sì che il nostro rifiuto diventa un atto generale contro Dio stesso, e questo è grave perché è la perdita della vita.
Sempre in questa chiave di lettura è anche comprensibile perché Dio ci ha creati pur sapendo benissimo come le cose sarebbero andate. Dio è il nostro babbo e non ha paura di metterci al mondo perché la sua forza, la sua vita, il suo amore per ogni sua creatura è più forte di ogni male, peccato e guerra che l’uomo Gli può fare. Non ha paura del nostro male, perché ci ama e vuole che noi lo sappiamo, per questo ce lo dice in molti modi, anche se a noi – e lo sa perfettamente – molto spesso non c’interessa.
Athos Turchi