È necessario pronunciare per intero la Professione di fede?
Mi domando se oggi abbia ancora un senso recitare, nella parte iniziale della Professione di Fede, l’espressione che dice «Dio da Dio, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre». Tale formula era stata proposta dai Padri partecipanti ai Concili di Nicea e di Costantinopoli per fissare la dottrina relativa alla natura divina di Gesù e la sua esistenza da sempre; ciò per sconfiggere definitamente le violente controversie trinitarie e cristologiche. Ho l’impressione che oggi questa questione sia stata ampiamente elaborata e metabolizzata (o semplicemente rimossa?) e che non vi sia più alcuna discussione. Eppure la Chiesa ce la fa ripetere ogni Domenica alla Messa. Vorrei sapere quale è la vostra opinione in proposito.
Massimo Piccini
La qualifica «niceno-costatinopolitano» rimanda ai due grandi concili del quarto secolo: Nicea nel 325 e Costantinopoli I nel 381. Questo testo che passerà alla storia come «simbolo niceno-costantinopolitano» non è stato semplicemente formulato nei due concili ricordati, ma ripensato, riformulato, precisato… infatti la professione di fede è ben più antica, risale alle origini del cristianesimo ed è legata al conferimento del battesimo. Si parte da espressioni di fede molto sintetiche testimoniate dal Nuovo testamento «Gesù è il Signore» (Rom. 10,9; Fil. 2,11; 1Cor. 12,3 ecc..), «Gesù è il Cristo» (At.18, 5; 1Gv.2,22 ecc..). Da queste affermazioni-professioni, che sembrano essere delle acclamazioni liturgiche, si passa ad una elaborazione che allarga e approfondisce la signoria unica di Gesù, non come una affermazione teorica, ma storica, cioè inserita in quel progetto di salvezza che è iniziativa del Padre, realizzato dal Figlio, reso vivo nella storia dallo Spirito Santo: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa (Pietro) e quindi ai Dodici…» (1Cor.15,3-5). «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui» (1Cor. 8,6). E anche espressioni usate nella liturgia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo…» (2Cor. 13,13). E infine la grande formula battesimale: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo…» (Mt. 28, 18-20)
Naturalmente anche al di fuori del Nuovo Testamento, negli scritti subapostolici, si trovano professioni di fede espresse non tanto come affermazioni teoriche, ma come fatti concreti dell’agire di Dio. Ascoltiamo Ignazio di Antiochia, martirizzato a Roma intorno al 107 d.C. «Non ascoltate se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo, della stirpe di Davide, di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve: Egli realmente fu perseguitato sotto Ponzio Pilato, realmente fu crocifisso e morì alla presenza del cielo e della terra e degli inferi. Egli realmente risuscitò dai morti poiché lo risuscitò il Padre suo e similmente il Padre suo risusciterà in Gesù Cristo anche noi che crediamo in lui, senza di lui non abbiamo la vera vita» (Lettera ai Trallesi).
Certamente i termini usati da Nicea («della stessa sostanza…») appartengono alla filosofia greca e sembrano culturalmente datati. Sarebbe possibile comporre una nuova confessione di fede in termini più moderni… certamente sì, e non mancano tentativi in merito, purché si parta dall’insegnamento di Nicea, ad di là delle sue storiche espressioni, secondo un principio teologico fondamentale così espresso dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «Noi non crediamo in alcune formule, ma nella realtà che esse esprimono e che la fede ci permette di toccare: l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà enunciata. Tuttavia noi accostiamo questa realtà con l’aiuto delle formulazioni della fede. Esse ci permettono di esprimere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e di viverla sempre più intensamente».
Dopo Nicea-Costantinopoli, la discussione si prolungherà sulla divinità e umanità di Gesù e sul loro intimo rapporto: la parola passerà al concilio di Efeso (431) e di Calcedonia (451). Non devono meravigliare queste discussioni che conoscono pagine sublimi e pagine assai discutibili intrecciate nelle passioni umane: il cristianesimo è incarnazione, è ridire in parole umane la grande Parola di Dio.
Un’ultima osservazione: non mancano, anche all’interno della comunità cristiana, coloro che ritengono Gesù come un grande uomo, un maestro, un martire, un profeta… ma solo un uomo… e non mancano anche coloro che ritengono Gesù un dio minore, una specie di angelo, un ambasciatore che ovviamente non può avere la stessa dignità di colui che rappresenta… Allora non è fuori luogo proclamare la fede nel Dio Uno e Trino con le parole della grande tradizione della Chiesa condivise da tutti i credenti in Cristo.
Giovanni Roncari