Un prete «spretato» può amministrare i sacramenti?
È vero che il sacerdote, anche se «spretato», può comunque amministrare i Sacramenti? Se si resta sacerdote per tutta la vita, questo vale anche se un prete si sposa? Lo stesso principio vale anche per le suore?
Lettera firmata
Le domande del nostro Lettore richiedono prima di tutto alcuni necessari ed elementari chiarimenti. Esse richiamano per alcuni aspetti il quesito dal titolo «Il prete rimane sacerdote per sempre?», che fu posto al P. Valerio Mauro in questa rubrica dell’11 giugno 2008.
L’ordine è il sacramento che per istituzione divina segna con carattere indelebile alcuni tra i fedeli costituendoli ministri sacri, consacrati e deputati a pascere il popolo di Dio, adempiendo ciascuno nel suo specifico grado le funzioni di insegnare, santificare e governare (can. 1008). Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato (can. 1009 §1).
La differenza di significato tra ordine sacro e stato clericale è sostanziale. L’ordine sacro introduce il fedele in una condizione sacramentale trasformandolo ontologicamente, cioè in modo soprannaturale nel suo stesso essere, costituendolo «ministro sacro» e abilitandolo ad agire in persona Christi nel caso dell’episcopato e del presbiterato, mentre i diaconi vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità (can. 1009 §3). Lo stato clericale, al contrario, determina una condizione giuridica che deriva dalla sacra ordinazione comportando per il chierico diritti e obblighi secondo l’ordinamento ecclesiastico.
Abbiamo detto che l’ordine sacro è un sacramento indelebile perché imprime il carattere. Su questa motivazione teologica nessuno potrà mai essere privato della potestà d’ordine (can. 1338 §2), che per la stessa ragione mai potrà essere dichiarata nulla se è stata validamente conferita (can. 290).
Pertanto, lo stato clericale è una conseguenza del sacramento dell’ordine, ma i due elementi sono distinti anche se correlati: un chierico può decadere dallo stato clericale, ma non potrà mai essere privato dell’ordine sacro, anche se spontaneamente lo chiedesse.
Il Legislatore ha previsto tre casi in cui il chierico può perdere lo stato clericale: invalidità della sacra ordinazione dichiarata per sentenza giudiziaria o per decreto amministrativo (can. 290 n. 1); dimissione legittimamente imposta a causa di un delitto che prevede una specifica sanzione (can. 290 n. 2); rescritto della Sede Apostolica con cui viene concessa la dispensa al diacono per cause gravi e al presbitero per cause gravissime (can. 290 n. 3).
In conclusione, la sacra ordinazione validamente amministrata ha un carattere permanente e la sua irreversibilità non cadrà mai nella disponibilità di alcuno, neppure della suprema autorità della Chiesa. Anche il peggiore comportamento delittuoso che venisse commesso dal chierico non produrrebbe effetti penali da annullare o invalidare la sacra ordinazione e la sua intrinseca potestà d’ordine.
Se il sacramento dell’Ordine conferito validamente è intangibile, come pure la relativa potestà d’ordine, una sorte diversa potrà toccare all’esercizio di questa sacra potestà. La competente autorità ecclesiastica, di fronte alla commissione di uno specifico delitto, potrà irrogare al chierico nei modi previsti dal diritto una censura come per esempio la sospensione parziale o totale dall’esercizio dell’ordine sacro, quella che abitualmente viene chiamata sospensione «a divinis», definita anche «pena medicinale» in quanto mira a ottenere la correzione del reo, e quindi non potrà essere una pena perpetua perché attraverso di essa se ne auspica il suo ravvedimento.
In alcuni casi la pena massima prevista per il chierico è la dimissione dallo stato clericale (can. 1336 §1 n. 5), ma serve ancora sottolineare che essa non potrà mai comportare anche la privazione della potestà di ordine in quanto strettamente connessa al carattere sacramentale. L’effetto che produce la dimissione dallo stato clericale comporta la proibizione (quindi la liceità) di esercitare la potestà d’ordine (can. 1338 §2) perché nella decadenza dallo stato clericale, oltre alla perdita dei diritti e doveri di tale stato, è insita la proibizione di esercizio della potestà di ordine (can. 292).
La «proibizione» di esercitare l’ordine sacro è altro rispetto al concetto di «privazione» (che nel caso comporterebbe l’invalidità degli atti conseguenti) perché, per il carattere indelebile che imprime questo sacramento, il presbitero validamente ordinato non potrà mai esserne privato. Per questo, in dette circostanze anche il sacramento della penitenza e della confermazione potrebbero essere celebrati validamente in forza della intangibile potestà d’ordine se il Legislatore non vi avesse apposto una clausola invalidante a loro tutela in assenza della debita facoltà (cann. 966 §1; 882). Così avviene in caso di «errore comune» in cui la sola mancanza della facoltà di assolvere, ma non della potestà d’ordine, viene supplita dalla Chiesa ope legis, purché ricorrano le condizioni previste dal can. 144 §2. Per lo stesso motivo, l’assoluzione del complice nel peccato turpe è invalida per la clausola inabilitante espressamente apposta dal Legislatore (can. 977) e non per difetto della potestà d’ordine. Infatti, in pericolo di morte il presbitero assolve validamente e lecitamente il complice anche qualora sia presente un sacerdote approvato (can. 976).
Il sacerdote privo solo della debita facoltà, oppure dimesso dallo stato clericale per qualsiasi ragione, possedendo inalterata la potestà d’ordine, viene integrato ipso iure, quindi senza ricorso all’autorità ecclesiastica, nella facoltà di amministrare il sacramento della penitenza e della confermazione in caso di pericolo di morte del penitente anche quando sia presente un sacerdote approvato (cann. 976; 986 §2; can. 883 n. 3).
Un’ulteriore dimostrazione ci viene ancora dallo stesso Codice di Diritto Canonico quando si riferisce al delitto di attentata azione liturgica del Sacrificio eucaristico.
L’invalidità è prevista solo per il caso di mancanza dell’ordine sacerdotale, senza citare e quindi includere come causa invalidante anche la sola eventuale decadenza dallo stato clericale (can. 1378 §2, n. 1). Al contrario, nello stesso contesto del canone, nel considerare il sacramento della confessione, la commissione del delitto di usurpazione dell’ufficio ecclesiastico riguarda l’attentato alla valida assoluzione nel suo complesso, cioè non solo la mancanza dell’ordine sacerdotale, ma anche, pur essendoci questa, la sola assenza della debita facoltà di amministrarla (cann. 1378 §2, n. 2; 966 §1).
Riguardo alla seconda domanda sul «prete che si sposa», come è noto nella Chiesa cattolica latina il presbitero è tenuto al celibato per accedere alla sacra ordinazione e anche successivamente. La sola perdita dello stato clericale, mentre fa venire meno gli obblighi e i diritti del chierico, «non comporta la dispensa dall’obbligo del celibato, la quale è di esclusiva competenza del Romano Pontefice» (can. 291).
Un chierico, sia che si sposi lecitamente dopo aver ottenuto la dispensa dagli oneri sacerdotali e dall’obbligo del celibato, oppure senza la necessaria dispensa attentando così il matrimonio anche solo civilmente, rimane integralmente depositario della potestà d’ordine. In questo secondo caso incorre nella sanzione della sospensione latae sententiae fino ad arrivare gradualmente alla dimissione dallo stato clericale (can. 1394 §1).
In entrambi i casi, venendo meno non la potestà d’ordine, ma soltanto il suo esercizio insieme alla decadenza dallo stato clericale, vale quanto abbiamo diffusamente detto prima circa la validità o meno della celebrazione dei sacramenti.
La proibizione di esercitare una potestà, una facoltà, un ufficio ecc. non è mai sotto pena di nullità (can. 1336 §1, n. 3), a meno che il Legislatore non vi apponga una clausola invalidante come nel caso della facoltà concessa per amministrare il sacramento della penitenza, quale requisito richiesto sempre ad validitatem (can. 969 §1), eccetto il caso di pericolo di morte del penitente (can. 976). Oppure, la facoltà dell’Ordinario del luogo e del parroco di assistere ai matrimoni validamente, a meno che (clausola inabilitante, cf. can. 10) non siano stati scomunicati, sospesi o interdetti dall’ufficio o dichiarati tali (can. 1109).
Un esempio abbastanza recente lo troviamo nel motu proprio Ecclesiae unitatem del 2 luglio 2009 con cui Benedetto XVI stabilisce che i ministri della Fraternità Sacerdotale San Pio X non possono esercitare in modo «legittimo» (sic!) alcun ministero. Come si vede, la legittimità consiste solo in una disposizione disciplinare che non comporta la nullità in caso di trasgressione, altrimenti la clausola invalidante sarebbe stata apposta «espressamente» (can. 10).
La sopravvivenza della valida sacra ordinazione rispetto a qualunque contingenza umana è esemplificata dal can. 293 che prevede la riammissione allo stato clericale per mezzo del rescritto della Sede Apostolica – quindi senza dover ripetere la sacra ordinazione per il carattere indelebile che imprime questo sacramento – oppure dalla sospensione per motivi pastorali del divieto della celebrazione dei sacramenti o dei sacramentali per esempio in pericolo di morte del fedele (can. 1338 §3).
Circa la terza domanda, pare d’intendere che il Lettore voglia sapere se una suora rimanga tale per tutta la vita. Su questo argomento ci sarebbe materia per scrivere almeno l’intero capitolo di un libro. Ci limitiamo a dire che tra il sacramento dell’ordine e la consacrazione religiosa attraverso la professione dei consigli evangelici non esiste neppure un lontano rapporto di analogia. Anche se il candidato all’ordine sacro e il religioso professo di voti perpetui manifestano entrambi l’intenzione di perseverare per tutta la vita, gli effetti giuridici in ordine alla perpetuità del loro stato di vita sono differenti. Il chierico riceve un sacramento che gli imprime il carattere in modo permanente, anche se dovesse decadere dallo stato clericale, conservando inalterata la potestà d’ordine. Il religioso, invece, che ottiene la dispensa dai voti, decade totalmente dalla vita consacrata tornando allo stato secolare.
Ultima precisazione. Se il religioso è anche chierico, con la dispensa dai tre voti decade dallo stato di vita consacrata, ma rimane presbitero o diacono con la facoltà di essere accolto e incardinato in una diocesi ed di esercitare l’ordine sacro divenendo presbitero o diacono diocesano.
È chiaro che una suora, non potendo ricevere l’ordine sacro, sarà sempre e comunque solo una fedele laica e una volta ottenuta la dispensa dai voti resterà solo una persona nubile che potrà tornare a progettare la sua vita ripartendo da questa nuova condizione secolare.
Francesco Romano