Eutanasia: pietà per le persone, fermezza sui principi
La vicenda di Welby ha suscitato in tante persone semplici, come me, tante domande. La Chiesa fa bene a rimanere salda sui propri principi: e quando si parla, in astratto, di eutanasia, anch’io sono fermamente contraria. Ma se si va a vedere caso per caso le singole vicende di persone che soffrono, la cosa è più complicata: a volte tenere in vita una persona appare una forzatura, e l’impressione è che sarebbe meglio spengere macchinari e tecnologie, e lasciare alla natura seguire il suo corso. Come si fa a giudicare quando questa scelta è giusta, e quando è sbagliata?
Graziella Morini
Spesso la parola «eutanasia» è usata per indicare la morte buona, la morte umana. Se fosse così, tutti ci dovremmo augurare una «eutanasia». In effetti per eutanasia si intende prima di tutto una morte chiesta o data per evitare sofferenze. L’eutanasia si colloca a livello di mezzi e di intenzioni: faccio o non faccio questo certo intervento con l’intenzione precisa di darti la morte perché ritengo che la tua morte sia un bene. Quando c’è una volontà chiara di eutanasia diventa meno importante sapere come questa volontà potrà essere messa in atto. Qualcuno distingue fra eutanasia attiva e passiva, a seconda che la morte sia ottenuta facendo qualcosa (es. somministrando dosi mortali di un farmaco a un anziano) o omettendo di fare qualcosa di vitale (es. non dando da mangiare a un neonato). La distinzione ha senso, ma non va troppo enfatizzata perché, quando si vuole sopprimere qualcuno, il mezzo che effettivamente si usa non fa molta differenza. Uccidere in un modo più o meno pulito non cambia la sostanza delle cose.
Nel dibattito in corso in Italia si è notato un progressivo scivolamento dall’idea di eutanasia fatta per evitare a un malato sofferenze a quella di eutanasia destinata a porre fine a una vita che si ritiene indegna di essere vissuta. Questo è il caso di chi si trova irreversibilmente in una condizione di vita ridotta a livello vegetativo, come la giovane Eluana Englaro. Dietro la maschera della pietà si può nasconde l’idea – spesso non esplicitata – che ci sono vite che hanno perso valore ai nostri occhi e che non hanno più diritto di essere né vissute né tutelate.
Dire no all’eutanasia in tutte le sue forme non significa che tutti debbono chiedere o accettare qualunque terapia a qualunque costo sino all’ultimo istante dell’esistenza. Esistono terapie proporzionate e terapie sproporzionate e la valutazione si fa in base, soprattutto, al rapporto fra impegno di mezzi e persone ed effetti benefici. Le terapie sproporzionate sono, in genere, non obbligatorie e il malato o chi deve decidere per lui può, pertanto, decidere che è meglio interromperle o accontentarsi di terapie meno gravose o meno rischiose.
E l’accanimento? La categoria di accanimento è piuttosto discussa, ma usualmente si intende per accanimento un atto medico che è del tutto inefficace rispetto all’andamento della malattia o dei suoi sintomi e che ha come unico effetto quello di prolungare penosamente la vita della persona. Non è dunque l’impegno richiesto o la tenacia del medico o la sofisticatezza dei mezzi a configurare l’accanimento perché impegno, tenacia e impiego di mezzi appropriati, anche avanzati, sono componenti di una buona medicina che resta al servizio della persona. Invece insistere con terapie inutili in termini di efficacia o e addirittura dannose per il malato – come si ha nell’accanimento – non sono buona medicina.
Quindi no all’eutanasia perché nessuno può decidere o favorire la morte di una persona. No all’accanimento perché accettare i limiti delle nostre possibilità terapeutiche è saggezza e rispetto della persona.
In mezzo a questi due estremi c’è l’ambito delle decisioni individuali con la valutazione dei diversi fattori in gioco, con il dialogo delle coscienze e delle libertà, con l’interazione tra medico e malato. Talora può essere accettabile sospendere o rifiutare terapie «gravose, pericolose straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi» (Catechismo Chiesa Cattolica 2278). La rinuncia, per essere moralmente accettabile, non deve essere mossa dalla volontà diretta di morte propria o altrui, ma deve partire dalla consapevolezza del valore intangibile di ogni vita.
Ciò che ha reso complicata la vicenda tragica di Piergiorgio Welby è che egli ha esplicitamente e ripetutamente motivato il suo desiderio di cessare la ventilazione artificiale affermando un suo diritto a morire. Non esiste per nessuno il diritto a dare o a darsi la morte. Non possiamo condividerne le motivazioni, ma proviamo egualmente per lui tanta pietà. Lo affidiamo a Dio, ricco di misericordia, che scruta gli abissi insondabili del nostro cuore e ci comprende più di quanto noi stessi non ci comprendiamo.