Benedizione alle famiglie: se il prete non viene?
Si sta avvicinando la Pasqua e, come sempre, in questo periodo i parroci sono impegnati nelle benedizioni delle case. Quest’anno, però, nella mia parrocchia (abito in un paese di seimila anime) abbiamo avuto una sorpresa: la comunicazione, da parte del pievano stesso, che questa volta non si sarebbe recato nelle case dei suoi parrocchiani per la benedizione pasquale.
Non è una decisione irragionevole: il pievano comincia ad essere anziano, non ha più il cappellano che l’aiuta, la parrocchia si estende anche a molte frazioni e così l’impegno diventerebbe ancora più gravoso di sempre. Ha ragione il nostro parroco: fra l’altro cominciano pure a scarseggiare i chierichetti che un tempo si contendevano «il servizio» di accompagnamento. Niente di nuovo sotto il sole, dirà qualcuno.
In realtà è risaputo che nelle grandi città da anni ormai i parroci non portano più la benedizione casa per casa ma solo «su richiesta». Ci è stato anche spiegato che di per sé si può fare a meno del sacerdote e ogni capofamiglia può impartire la benedizione ai membri della sua casa.
Tutto questo non significa però che chi come me era abituato da sempre al rito della benedizione «a domicilio» non abbia provato un profondo dispiacere per il venir meno di un momento così importante per la comunità. Che ne pensa?
Fiammetta Fiori
Del resto, la tradizione di benedire le famiglie nel tempo di Pasqua da parte del parroco, risale al XVI secolo, agli anni successivi al Concilio di Trento, quando nacque come occasione per consolidare la comunità parrocchiale e preservarla dalle correnti ereticali, oltre che per portare l’acqua benedetta al fonte durante la veglia pasquale.
Occorre però ricordare, come già si accennava nella lettera, che quando non è possibile la presenza del sacerdote all’interno della famiglia ogni genitore può benedire i propri figli – in particolari circostanze della vita, quando la famiglia si riunisce per la preghiera o per altri motivi; anzi, tale prassi è tutt’oggi da riscoprire e valorizzare (si veda il Benedizionale 585-605). E questa tradizione è ancora più antica della precedente: abbiamo la certezza della benedizione fatta da laici sui propri familiari fin dal VII secolo come ci testimonia uno dei primi testi liturgici, il sacramentario Gelasiano, al numero 1557.
Molto dipende dalle concrete situazioni pastorali e individuali, sia delle singole comunità cristiane, sia dei pastori a cui sono affidate. Per usare le parole di don Silvano Sirboni, noto liturgista «Oggi, in un contesto multi-religioso, segnato da sistemi e ritmi di lavoro che costringono alla mobilità svuotando o quasi durante il giorno interi quartieri, questa tradizionale attività pastorale trova non poche difficoltà, specie nei centri urbani. C’è chi rifiuta, chi sopporta, chi accetta senza troppo entusiasmo, chi non comprende il significato del gesto, chi si preoccupa di andare subito alla ricerca dell’offerta ». È facile, purtroppo, che a causa di vari condizionamenti questo momento di preghiera si riduca ad un gesto esteriore, vuoto, molto più vicino all’ambito della superstizione che a quello della fede nel Signore.
Potremmo dire, in ultima analisi, che spetta al parroco, in base alla propria condizione personale e pastorale, valutare tutte le circostanze, giudicare l’opportunità e le modalità di compiere questa benedizione perché sia un rito che annunci chiaramente e correttamente il Vangelo e la missione evangelizzatrice della Chiesa. Siamo sicuri che, dove non può essere presente il sacerdote attraverso la visita alle singole famiglie della parrocchia, il Signore continua ad accompagnarci con la sua benedizione in altri modi!