La tristezza: un «vizio capitale» dimenticato?
L’eremita Evagrio e il suo discepolo Cassiano, aggiunsero ai sette vizi capitali la «Tristezza», poi attraverso i tempi essa scomparve dall’elenco… domando: come dobbiamo considerarla oggi?
Risponde, don Carlo Nardi.
Anche la tristezza tra i vizi capitali? Secondo l’eremita greco Evagrio il Pontico (sec. IV) è uno degli «otto spiriti della cattiveria», ai quali dedica un trattatello con questo nome. Con Giovanni Cassiano (sec. IV-V), suo discepolo, monaco giunto in Provenza dall’oriente, – discepolo anche di Giovanni Crisostomo, poco propenso a enfatizzare influssi demoniaci, ma piuttosto a porre l’uomo di fronte alle sue responsabilità e alla possibilità di cambiar vita -, gli «otto spiriti» diventano altrettanti «vizi principali». Quali sono? Quelli che abbiamo imparato a dottrina, con qualche significativo aggiustamento. C’è in più proprio la tristezza e poi la vanagloria, e in meno l’invidia: in tutto, gola, lussuria, avarizia, «tristezza», accidia, vanagloria e superbia, gli otto vizi grosso modo della tradizione spirituale e morale greca.
E i sette dei nostri catechismi, di già nella Divina Commedia? La nostra lista risale a Gregorio Magno, papa dal 590 al 604. Il settenario della tradizione latina tende a fare della tristezza una parte dell’accidia o viceversa e talora a identificarle, considera la vanagloria un aspetto della superbia, e introduce l’invidia. Si è così a quota sette.
Ma la tristezza non è uno stato psicologico, che dipende dal «naturale» di ciascuno? Non è, semmai, una tentazione di disperazione, ma non un vizio in sé? San Tommaso d’Aquino prende sul serio l’obiezione, lasciando ampio spazio all’azione, si direbbe premorale, delle cause psicofisiche. Eppure un certo tipo di tristezza è inglobato nel vizio dell’accidia. Sottolineo un certo tipo. Perché l’apostolo Paolo distingue o, meglio, invita a discernere una «tristezza secondo il mondo» viziosa ed un’altra «secondo Dio», virtuosa (2 Cor 7,10). La distinzione è ben nota ad Evagrio che lancia occhiate introspettive nella nascita e crescita della tristezza peccaminosa nell’anima umana.
Quali sono i tratti di una tristezza viziosa? Il segno di riconoscimento più vistoso è il «rimorso di peccati mortali non commessi», per dirla con un’espressione maliziosamente ironica che mi ricordo d’aver letta da qualche parte in Indro Montanelli. L’accorto lettore ne troverà svariate, anche se più sfumate e forse men peccaminose applicazioni. Già, i sospiri del Conte zio manzoniano
Poi, più sottile, è la «tristezza che proviene da un bene spirituale, virtuoso, interiore», con cui propriamente s. Tommaso delinea l’accidia. Ora, una tristezza, che prende spunto da un bene attinente alla gloria di Dio e alla salvezza degli uomini, è tentazione, può essere peccato e diventare un vizio che può annidarsi fin tra le panche di chiesa, anzi tra gli stalli del coro: «Oh, quant’è lunga questa messa cantata!» Il che può essere anche vero, ma se quella percezione sensibile fa perdere la gioia interiore del fatto che è comunque la messa ?!
Ecco la tristezza inquieta, incostante, sfarfallona, borbottona, disgustata del compimento qui ed ora della santa volontà di Dio e capace col suo bubare di disgustare chi ci sta accanto. Si fa pigrizia con i suoi peccati di omissione. Eppure, da una introspezione più accurata si può capire perché anche un bene vero possa venire a noia. Perché quel bene davvero cristiano non si manifesta ancora in tutta la sua bellezza. Lo sarà, definitivamente, solo in paradiso.
Sicché una certa malinconia è inerente all’essere cristiani, perché inerente al chiaroscuro della fede. Tutto sta nel farne buon uso, di quella malinconia, perché diventi segno concreto della speranza teologale: diventi insomma quella «tristezza secondo Dio» che trasforma il rimorso in compunzione, questa in contrizione, questa in pentimento nella gioia del perdono di Dio in una vita di operosa penitenza. Davvero quella tristezza si muta in gioia, spirituale e interiore, secondo una tradizione dagli spunti «pagani» (Plutarco e Seneca), poi cristiana, sia greca (Basilio, il Crisostomo: gioia che nulla e nessuno ci può togliere se non noi stessi col peccato) che latina (Agostino con la sua «gioia che proviene dalla verità», da Cristo). È la gioia delineata anche da Paolo VI nella esortazione apostolica Gaudete in Domino del 1975. Una preghiera offerta nel Messale come preparazione alla messa la può sintetizzare: «Gioia e pace, conversione della vita, tempo e luogo per una vera penitenza, grazia e consolazione dello Spirito Santo, perseveranza nel fare il bene doni a noi il Signore onnipotente (Gaudium cum pace tribuat nobis Dominus omnipotens)».
Anche la quarta domenica di quaresima, – con quel suo misericordioso relax, eventualmente fiorita e rosacea, e perché no? con la pentolaccia -, ne può essere un segno. Se non altro di quelle semplici gioie che la liturgia non solo autorizza, ma anche invita a chiedere. Anche per non cadere nella tristezza dell’accidia.