La gratuità del servizio del diacono permanente
Intendo dare un personale contributo a quanto chiesto e risposto nella rubrica «Risponde il teologo» sul numero di Toscana Oggi del 29 marzo scorso (Perché il diacono deve lavorare?), in merito alla questione sul «Perché il diacono deve lavorare?».
La prospettiva da cui si deve partire per un’adeguata risposta alla domanda posta è quella della dimensione pastorale propria del diacono in sé e del contesto ecclesiale in cui viene a trovarsi.
Infatti a mio parere il quesito è posto in maniera inappropriata, perché sembra voler nascondere quasi una rivendicazione di tipo sindacale e salariale e contemporaneamente prospetta un’implicita istanza di collocazione in un servizio esigente ricompensa, mentre il compito diaconale di per sé è gratuito ed oblativo.
Nessuno può arbitrariamente attribuirsi una funzione ecclesiale, ma semmai aprirsi ad un significativo discernimento e valoriale impegno formativo al di là di quello che poi può essere l’investimento pastorale dell’uomo ordinato diacono.
In questa ottica non è al teologo che ci si deve rivolgere per desiderare una risposta chiara ed esauriente, ma alla propria coscienza di credente che presumibilmente si sente «chiamato» ad una vocazione specifica dentro il tessuto ecclesiale.
Infatti chi arriva a chiedere se il diacono «permanente» debba lavorare o no non ha ben chiaro il progetto diaconale in sé e la sua posizione nell’intera elaborazione pastorale. Esso richiede impegno sì, ma soprattutto una dimensione etica raffinata ed una spiritualità di alto spessore. Se i presbiteri ed i vescovi vengono remunerati lo è per scelta dei fedeli, in quanto essi vedono in essi una piena disponibilità ad un servizio evangelico delle persone da aiutare, guidare, servire. Non così per il diacono permanente, il quale è configurato diversamente dentro il popolo di Dio ed è dallo stesso percepito come colui che collabora fattivamente sì, ma non a tempo pieno col presbitero ed il vescovo per rendere meglio percepibile la visione della chiesa come serva. A chi desidera intraprendere, secondo l’antico uso, il cammino diaconale si richiede servizio pieno della professione, probità e sapienza di conduzione della propria comunità familiare, rettitudine di intenzione e desiderio esclusivo di servire il Cristo/Servo nella chiesa Serva e sua Sposa.
E se il diacono è celibe? come ci si deve comportare? Qui dipende dalla «charitas», di paolina memoria, ecclesiale e dalla sensibilità pastorale di colui che guida una chiesa locale, che sapientemente può affidare incarichi a tempo pieno al diacono con relativa remunerazione (iscrivendolo nell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero), specificando che ciò non è sostitutivo di un lavoro qualsiasi, ma è servizio pastorale, perché si verrebbe a dare l’impressione che si può diventare diacono facilmente e ricevere immediatamente un impiego con relativo facile stipendio, saltando la filiera delle liste di collocamento e quant’altro necessita per addivenire ad un lavoro professionale. Questo può essere sempre un rischio presente ed anzi, oggi più che mai, può divenire realtà e non solo un apparente pericolo.
I documenti magisteriali parlano chiaro: non si diventa diacono per avere immediatamente un lavoro, ma è una vocazione per il servizio, cui eventualmente può essere dato un certo cespite come gesto di ricompensa e di sollecitudine.
Infine la diaconia non è uno strumento veloce per occupare una persona, dandole un introito sicuro senza passare per selezioni varie od attese di liste occupazionali, ma è al contrario un vero e proprio dono dello Spirito e su questa acquisizione di fondo c’è molto da lavorare ed impegnarsi.