Povertà e ricchezza secondo il Vangelo
Mi ha sempre incuriosito il brano del Vangelo in cui Gesù dice: «È più facile che un cammello passi nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei Cieli». A parte la particolarità dell’immagine usata da Gesù, se lo prendiamo letteralmente è un passo molto duro. Ma cosa significa essere ricco? Quando è che una persona può essere definita tale? C’è un limite economico, o è piuttosto uno stato d’animo?
Fin dall’antichità, per rendere tollerabile questo paragone bizzarro, è stato proposto di dare una lettura diversa al termine greco tradotto con «cammello», e renderlo come una «grossa fune». Perfino in questo modo il paragone non è meno efficace: una «gomena», quale quella usata per le navi, non passa meno agevolmente attraverso un «ago da cucito» (come dicono Marco e Matteo), o attraverso un «ago per uso chirurgico» (Luca). Anche il giudaismo rabbinico parla della «cruna dell’ago» in espressioni proverbiali, come la più piccola apertura immaginabile, e a dover passare non è un cammello, ma addirittura un elefante. Si è anche parlato della cruna dell’ago come la porta più bassa e stretta delle mura della città, anche se questa lettura non può essere accettata perché presuppone che Gesù parli solo della difficoltà, e non della reale impossibilità, dell’ingresso dei ricchi nel regno dei cieli.
Quanto al senso della seconda parte della domanda del lettore, penso vada riportato all’insegnamento di Gesù, ad esempio nel discorso della montagna del Vangelo di Matteo: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,13-14; cf. Lc 13,23-24). E soprattutto: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3; cf. Lc 6,20: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio»).
Il senso di questa beatitudine sembra vada individuato non tanto nella lode della povertà materiale, né della «povertà dello spirito» intesa come limite dell’uomo, quanto nel loro abbattimento da parte dei discepoli di Gesù, di ieri e di oggi. I «poveri per lo spirito» devono attendere con fiducia che Dio porti la salvezza, senza tuttavia rassegnazione (loro e degli altri!) di fronte a qualcosa che non si può eliminare. Questo esclude quindi l’interpretazione della povertà solo come atteggiamento di distacco solo spirituale, che non richiede la rinuncia alla ricchezza: ciascuno deciderà da solo come e in quale misura.