Nella liturgia del Venerdì Santo è prevista anche la Comunione?
Nella nostra parrocchia da qualche anno a questa parte il Venerdì Santo non ci si comunica. Il nostro parroco ci ha sempre abituati a ricevere l’Eucarestia, al contrario il vice parroco sostiene che il corpo di Gesù non è disponibile perché «morto». Siamo confuse. Vorremmo chiarimenti a riguardo.
E’ una storia davvero complessa e interessante, qui possiamo solo accennarla.
Per quanto riguarda il venerdì santo, possiamo così riassumerla. Nelle liturgie occidentali si evolve una celebrazione con tre elementi fondamentali: liturgia della Parola, l’adorazione della Croce, la liturgia dei Presantificati, cioè la comunione con l’eucarestia consacrata (presantificata) nella Messa del giovedì santo. Intorno a questi tre essenziali momenti si sviluppano tanti simboli, riti, preghiere che arricchiscono e anche appesantiscono tutta la celebrazione. Sono elementi senza dubbio positivi la solenne preghiera dei fedeli (per tanti secoli l’unica rimasta nella liturgia romana), il progressivo scoprimento della croce accompagnato dall’invito a rivolgere lo sguardo verso la croce alla quale è appesa la salvezza del mondo ecc..Più complicata e controversa è invece la liturgia eucaristica che pur non essendo una Messa in senso proprio, ne assume, quasi, le forme celebrative.
Nei primi secoli cristiani nei tempi penitenziali della quaresima non si celebrava la Messa, ma si faceva la comunione con l’eucarestia consacrata la domenica precedente accompagnandola da letture e preghiere: era la messa, impropriamente chiamata così, dei Presantificati. Il termine si riferisce al pane e al vino consacrati precedentemente. Il venerdì santo non veniva fatta la comunione per sottolineare il lutto della chiesa per la morte del suo Signore. Però con l’andar del tempo (VII-VIII secolo) si iniziò a fare la comunione anche il venerdì santo come momento di fede e adorazione per il corpo consegnato per noi. Questo uso, tuttavia, non fu nè generale nè da tutti condiviso. Addirittura nel 1622 la Congregazione dei Riti della curia romana (l’antenata della attuale Congregazione del Culto Divino) vietò la comunione ai fedeli nel venerdì santo.
Per diversi secoli, dal basso medioevo fino alla riforma di Pio XII nel 1955, la liturgia eucaristica del venerdì santo si svolgeva in questo modo: nella messa in coena Domini del giovedì santo venivano consacrate due ostie grandi, una delle quali veniva messa in un calice e, al termine della celebrazione, portata solennemente ad un altare riccamente adornato (quello che impropriamente veniva chiamato sepolcro) e serviva per la comunione per il solo celebrante nel venerdì santo, durante una celebrazione che imitava la Messa: incensazione dell’altare, lavanda delle mani, invito orate fratres, quindi saltando tutto il canone, recita del Padre nostro, con le preghiere annesse, e finalmente la comunione del solo celebrante. Si aveva l’impressione di qualcosa di artificioso e complicato.
Nella riforma della settimana santa, Pio XII semplificò decisamente questa celebrazione, eliminando tutto ciò che poteva far ricordare una messa e riducendola alla comunione, preceduta dalla recita del Padre Nostro, estendendola però a tutti i partecipanti perchè: «partecipando alla comunione di quel Corpo che oggi per tutti viene consegnato, ricevano più abbonandati frutti della redenzione» (Decreto Generale sulla Settimana Santa, n.47, Roma 1955)
La riforma liturgica post-conciliare ha sostanzialmente confermato, per quanto riguarda la comunione, la riforma di Pio XII, anche negli aspetti celebrativi.
Ma non mancano situazioni diverse: per rimanere in Occidente, la liturgia ambrosiana (Milano) non prevede la comunione il venerdì santo: Anche in Spagna non viene distribuita la comunione in questo specialissimo giorno. La motivazione è quella cara alla antichità cristiana: il giorno di digiuno e di lutto. Non si tratta affatto che il corpo del Signore non è disponibile perché è morto. L’espressione è assolutamente impropria: l’eucarestia è l’attualizzazione per noi del mistero pasquale del Signore morto e risorto. Ma, credo, queste parole siano solo un malinteso.
La storia ci insegna che non esistono motivi assolutamente decisivi per l’una o l’altra prassi liturgica: se ricevere o no l’eucarestia. È, mi sembra, una questione di sensibiltà spirituale e liturgica, che ha motivazioni valide nell’uno e nell’altro caso. Forse, allora, il discorso va spostato su altre considerazioni che mi sembrano non meno importanti. Il singolo celebrante non deve imporre ai fedeli partecipanti e in qualche misura concelebranti, le proprie personali idee o sensibilità spirituali e liturgiche, ma deve celebrare in comunione con tutta la chiesa attraverso lo strumento del libro liturgico, letto e attualizzato in modo pastoralmente valido. Per quanto riguarda la comunione, se farla o no, non rientra in quei legittimi adattamenti che lo stesso messale prevede o consiglia. «Si rispetti religiosamente e fedelmente la struttura dell’azione liturgica della passione del Signore (liturgia della Parola, adorazione della croce e santa comunione), che proviene dalla antica tradizione della Chiesa. A nessuno è lecito apportarvi cambiamenti di proprio arbitrio». (cfr. Preparazione e celebrazione delle feste pasquali, della Congregazione per il Culto Divino, Roma 1988, n.64)