Che differenza c’è tra il giudizio «universale» e il giudizio «particolare»?
Nel Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 1022 si afferma che «fin dal momento della sua morte ogni uomo riceve la retribuzione eterna in un giudizio particolare… per cui o passerà attraverso una purificazione (Purgatorio), o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre». Al paragrafo 1038 e segg. si afferma che avvenuta la risurrezione di tutti i morti vi sarà il Giudizio finale, in cui Cristo… separerà gli uni dagli altri… e quanti facero il male «se ne andranno al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».
Al di là del fatto che i tempi della vita eterna non sono misurabili con i criteri terreni, è certo che il giudizio finale sarà «universale» e avverrà alla c.d. fine dei tempi, mentre il giudizio particolare avrà luogo al momento della morte di ogni uomo. Se però il giudizio particolare conterrà già implicitamente la decisione sulla futura «retribuzione eterna» (§1022), quindi di per sé definitiva, in cosa si potrà distinguere il Giudizio «finale» da quello «particolare»?
Franco Contè
Innanzitutto dobbiamo fare i conti con le letture che la liturgia ci propone per prepararci a tale solennità, a quelle della solennità stessa e anche a quelle dell’Avvento che segue: poiché nell’Avvento si ricorda con forza anche la nuova venuta di Cristo alla fine dei tempi. Molte di queste letture introducono una distinzione fra tempo ultimo, quello del ritorno di Cristo, e tempo penultimo, quello che precede il ritorno di Cristo. L’Apocalisse nella sua interezza, ma anche Paolo ai Corinzi (cf. 1Cor 15), ad esempio descrive il tempo penultimo ai margini della storia prima della definitiva vittoria di Cristo e la sua piena e gloriosa manifestazione (Parusia). Ma la logica del tempo penultimo riguarda anche lo status di coloro che saranno già morti al ritorno del Cristo, i quali avranno la precedenza sui vivi nella resurrezione (cf. 1Tess 4,13-18). C’è una sorta di attesa dei trapassati: pur godendo della visione di Dio attendono il ritorno di Cristo.
Il magistero ha ufficializzato tale attesa in un testo che è alla base anche di quanto riportato dal Catechismo della Chiesa Cattolica, la costituzione Benedictus Deus di Benedetto XII del 1334 (cf. DS 1000-1002). La dottrina di tale costituzione è stata più volte ripresa e sviluppata: essa stabilisce una dimensione intermedia, precedente il giudizio finale, che è sia di vera beatitudine per i retti, di vera perdizione per i reprobi, ma soprattutto che c’è una dimensione che vede estendere la misericordia divina in ordine alla purificazione di molti (Purgatorio). Questa dimensione è intermedia, provvisoria, penultima semplicemente perché riguarda un solo aspetto degli esseri umani, la così detta anima.
E qui arriviamo alla novità assoluta del Giudizio finale, esso è – qui sono obbligato ad usare avverbi di tempo assai inadeguati (si notino i limiti linguistici mai totalmente superabili) – «concomitante» alla resurrezione della carne.
La novità assoluta, la differenza abissale fra il «prima» e il «dopo» resurrezione è la completezza del progetto creazione. Per capire bene tale aspetto bisogna tornare alle origini: quando Dio creò gli esseri umani li defini kalòs in greco e tov in ebraico, termini che significano sia «buono» che «bello». Anzi dopo la comparsa degli esseri umani tutto il creato risultava «molto buono e molto bello» (cfr. Gn1,31). Tale «splendore» delle origini, compresa la corporeità, chiede completezza, purificazione dopo l’esperienza orrenda dei nostri limiti. Il Giudizio finale porta definitività al creato, compresa la sua dimensione corporea, mostrando che qualcuno può perdersi definitivamente, integralmente, ma qualcuno, e noi speriamo siano molti, salvandosi integralmente mostra come il creato non sia un progetto incompiuto e come perfino la nostra corporeità possa tornare a quello splendore intuito e perso che aneliamo oggi possedere in pienezza.