È possibile fare la Comunione senza essersi prima confessati?
Venni a Firenze nel 1954, ero ragazzino, fui accolto nella parrocchia di San Jacopino a Firenze. Avevo già fatto la Prima Comunione e la domenica, prima di comunicarci la suora prendendoci con amore la testa fra le mani ci chiedeva se eravamo in grazia di Dio; se avevamo fatto qualche marachella o detto una bugia, allora lei ci consigliava di fare la comunione spirituale e di confessarsi. Vedevo ai confessionali file lunghissime di donne e qualche uomo (gli uomini allora tendevano a confessarsi in sacrestia).
Poi la vita è passata, è venuto il Concilio e giustamente sono stati girati gli altari. Io mi trovo da pensionato a frequentare ancora la chiesa e vedo come le cose sono cambiate rispetto ai Sacramenti: i confessionali sono per lo più vuoti, mentre la Comunione ci si vergogna a non farla. E ora la domanda al teologo: siamo passati da un eccesso all’altro o abbiamo smarrito il senso del peccato?
La lettera richiederebbe una risposta molto ampia e articolata, perchè riguarda, a mio parere, non una semplice prassi pastorale, ma tutto un modo di praticare la vita cristiana nei due fondamentali sacramenti (dopo il Battesimo) della Eucaristia e della Penitenza e del loro reciproco rapporto. Una risposta che necessariamente deve attingere dalla storia della Chiesa, della teologia, della spiritualità, della liturgia ecc… in altre parole dal vissuto del popolo cristiano. Si può toccare quasi con mano come la prassi pastorale e la dottrina teologica non siano due parallele che non si intersecano mai, ma che, anzi, l’una non può fare senza l’altra e che entrambi sono necessarie per comprendere la rivelazione cristiana.
È utile partire da quanto insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica. Dopo aver affermato che la Messa è «inseparabilmente memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce e il sacro banchetto della comunione al Corpo e sangue del Signore» (n.1382), si ricordano le parole del Signore «in verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv.6,35) (n.1384). Da questa premesse si passa all’insegnamento pratico: «Per rispondere a questo invito dobbiamo prepararci a questo momento così grande e così santo: San Paolo esorta ad un esame di coscienza: “chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e sangue del Signore: ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva a questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna (1 Cor. 11,27-29) Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione». (1385)
Nel Catechismo, dunque, si propone la dottrina e la prassi pastorale plurisecolare come valida e impegnativa. Non si esorta ad una faciloneria che porti a sottovalutare la fondamentale importanza della comunione eucaristica che scadrebbe così in una innocua abitudine, nè a sottovalutare il peccato grave abituandosi a conviverci. Possiamo chiederci perchè nella mentalità comune comunione e confessione sembravano essere quasi un unico sacramento, la confessione come condizione per poter ricevere la comunione eucaristica. Molte sone le cause che hanno portato a questo, non ultima quella della rarefazione della comunione diventata un evento straordinario della vita cristiana e non una prassi piuttosto comune. Era abituale non fare la comunione pur assistendo alla messa domenicale. Tutti ricordiamo la prescrizione del Concilio Lateranense IV (1215), diventata poi il terzo precetto generale della Chiesa «confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua» era il minimo richiesto, diventato poi per molti il massimo consentito! Può invece sorprendere che nella Regola di santa Chiara d’Assisi, sia stabilito per le monache clarisse di comunicarsi sette volte l’anno, ma di confessarsi almeno dodici volte l’anno (cap. III della Regola) Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Con l’andar del tempo è invalso l’uso di premettere sempre la confessione alla comunione intesa più come premio dato ai santi che come pane dispensato ai pellegrini (cfr. sequenza del Corpus Domini).
La riforma liturgica impostata dal Vaticano II e preparata dal movimento liturgico, almeno dalla seconda metà dell’ 800 in poi (come non ricordare le riforme di san Pio X agli inizi del secolo scorso sulla comunione frequente e sulla comunione ai bambini) ha riequilibrato la prassi teologica e pastorale anche se questo non significa necessariamente che tutti i problemi siano risolti e non si siano generati abusi e interpretazioni quanto meno discutibili. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica vari paragrafi (nn. 1391-1398) ai frutti della Comunione sottolineando in particolare il perdono dei peccati e il distacco dal peccato stesso come felice dono della Eucaristia. La citazione di due stupendi brani patristici (sant’Ambrogio e san Fulgenzio di Ruspe) e del Concilio di Trento (ripreso poi dal Catechismo per i Parroci) evidenziano una continuità di dottrina pur nel variare dei tempi e delle sensibilità.
Citiamo solo il testo di sant’Ambrogio. «Ogni volta che lo riceviamo (il sacramento eucaristico) annunziamo la morte del Signore: Se annunziamo la morte, annunziamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il suo sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina». ( De sacramentis, 4,28)
In quanto all’altra domanda, se abbiamo smarrito il senso del peccato, si dovrebbe aprire una riflessione ben più ampia e che supera certamente il problema del rapporto fra comunione eucaristica e il peccato.