Dossier

I misteri dell’11 settembre

DI FRANCO CARDINICi saranno le celebrazioni: saranno senza dubbio solenni e ci procureranno ancora commozione. Quel giorno, del resto, non lo dimenticheremo mai: anche se resta il dubbio che, a farcelo ricordare con particolare intensità, abbia contribuito un bombardamento d’immagini che in qualche tv è stato quasi giornaliero, da due anni a questa parte.Perché l’11 settembre del 2001 fu orribile, e le vittime di esso non dovranno mai esser dimenticate. Eppure – chiediamocelo – quante altre vittime, che muoiono silenziosamente e senza colpa ogni giorno, meriterebbero di condividere il destino di quelle dell’11 settembre e invece le seppelliamo con la nostra indifferenza?

I dati Onu del 2002 parlano di oltre quattro milioni di bambini che muoiono ogni anno per le conseguenze della sottoalimentazione. Siamo sicuri che non siano anch’essi vittime del terrorismo, ad esempio di quello di chi potrebbe aiutarli e non lo fa per tenere alti sul mercato i prezzi di certe merci? Non sono forse vittime del terrorismo più vile e odioso gli africani che muoiono ogni anno per Aids e non possono procurarsi farmaci che sarebbero a buon mercato, se a difendere i loro prezzi non ci fossero i cartelli dei «brevetti» e i veti dei governi interessati a difendere quegli immondi «diritti»?

Celebreremo quindi tra breve il secondo anniversario dell’11 settembre 2001. Anche se il clima non sarà più quello. Pesa sulla società statunitense l’approssimarsi delle elezioni presidenziali, e i democratici non hanno intenzione di fare sconti a Bush: che dovrà rispondere non solo di essersi impantanato nei due irresolvibili dopoguerra afghano (di cui si è finora riusciti a parlare il meno possibile) e iracheno (che non si è riusciti a far passare sotto silenzio), ma anche di aver fatto di tutto, finora, per impantanare la commissione d’inchiesta che dovrebbe chiarire tutte le responsabilità dell’11 settembre. Quelle dei mandanti che sono ancora senza volto, quelle degli esecutori su cui restano ampie macchie d’incognito e quelle di quanti (al governo, nei servizi speciali, al Pentagono) si resero responsabili di errori e di omissioni. Altrimenti, che cosa significherebbe mai d’altro l’incredibile pretesa del governo statunitense, secondo il quale per accedere ai risarcimenti in denaro le famiglie delle vittime dovrebbero rinunziare esplicitamente al loro diritto a far ricorso contro chiunque salvo i terroristi? Quali responsabilità e omissioni si vogliono coprire con queste pretese ricattatorie?

E allora, il richiamare un attimo i fatti non sarà male.Dopo il duplice attentato dell’11 settembre, al World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington (ma si disse che avrebbe dovuto trattarsi di un attentato in realtà triplice), il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Lo si disse e lo si ripeté in mille modi: con accenti di mònito, di minaccia, forse anche di speranza.

All’indomani dell’11 settembre, era molto difficile per tutti, negli States e nel cosiddetto «Occidente», mantener la tranquillità necessaria a organizzare gli elementi per orientarsi con chiarezza a proposito di quel ch’era accaduto a New York, a Washington e nei cieli della Pennsylvania, dove a quel che si riuscì a sapere era stato sventato quel terzo attacco aereo che – dopo quelli alle Twin Towers e al Pentagono – avrebbe dovuto aver come obiettivo la stessa Casa Bianca. Le notizie si susseguivano, anzi si accatastavano bombardandoci: dalle emittenti radiotelevisive, dai giornali, dal web. Come sempre in analoghi casi, la cosa più difficile era districarsi dalla massa di particolari futili e inutili e riuscir a raggiungere le informazioni che sarebbero state necessarie per far un po’ d’ordine. Sul numero delle stesse vittime del World Trade Center – computato in un primo momento a circa 12 mila persone, sceso poi alla metà e infine, per fortuna, ridimensionato alla pur spaventosa cifra di circa 2 mila 800 – incertezza e confusione la fecero per settimane da padrone. Sulle prime, pervennero anche dagli Usa informazioni alquanto allarmate e allarmanti su incidenti verificatisi immediatamente dopo la divulgazione delle prime notizie riguardanti la catena del triplice attentato: qualcosa che ricordava fatti accaduti in tempi recenti, quali il black out di New York o il terremoto di Los Angeles. Negozi saccheggiati, distributori di benzina presi d’assalto, alcuni linciaggi a carico di musulmani o supposti tali (ad esempio alcuni sikh, scambiati per musulmani a causa dei loro turbanti) dal momento che quasi immediatamente dilagò la notizia che i responsabili dell’attentato – mandanti ed esecutori – erano fondamentalisti islamici, e subito si fece il nome dello sceicco Osama Bin Laden.

Fu come se, quell’11 settembre, convergessero sugli States gli esiti remoti e recenti di angosce che per molto tempo si erano espressi nei film del «genere catastrofico». I disordini causati da questo disorientamento collettivo durarono poco e furono immediatamente repressi e superati dall’atmosfera di solidarietà e di orgoglio che parve invadere l’intera opinione pubblica statunitense e che tanto commossa e ammirata lasciò l’opinione pubblica occidentale. Ma la ventata di fierezza, che il presidente George W. Bush jr. seppe cogliere e interpretare con tempestività, non bastò a fugare le ombre e a far tacere le troppe domande senza risposta. Come si dovevano intendere e, senza lontanamente giustificarle, cercar di comprendere dal loro interno le scene di gioia che in parecchie parti del mondo, specie (ma non solo) arabo-musulmano, si erano verificate allorché le reti televisive avevano diffuso le drammatiche notizie riguardanti New York? Com’era possibile che un paese l’autoimmagine del quale, profondamente condivisa da gran parte dell’opinione pubblica occidentale, era quella della patria della libertà, del guardiano della pace, del liberatore del mondo dalle tirannie, del soccorritore generoso dei popoli in miseria e in difficoltà, potesse al contrario essere oggetto di tanto rancore? Bastava il fanatismo politico-religioso a giustificare simili aberrazioni?

E i misteri s’infittivano, per quanto un sistema massmediale rigorosamente e abilmente gestito fosse pronto a diradarli o a nasconderli. Si diffuse presto, anche per via internet, l’infame leggenda metropolitana di ebrei – funzionari, impiegati, visitatori vari – che quell’11 settembre non si erano recati con vari pretesti al loro posto di lavoro nelle Twin Towers o che se ne erano allontanati prima dell’impatto dei due aerei. Una vergognosa, gratuita calunnia diffusa a quanto pare da un commentatore di «Al-Jazeera» (che l’emittente avrebbe poi licenziato): ma che, come sovente accade in casi del genere, non nasceva dal nulla. In effetti Micha Macover, direttore dell’impresa Odigo, leader nel campo telematico, confermò il 26 settembre al quotidiano israeliano «Ha’Aretz» di aver ricevuto anonimi messaggi d’allarme riguardanti l’attentato di New York due ore prima ch’esso fosse perpetrato. L’informazione fu ripresa da Daniel Sieberg per la «Cnn» e, quindi, da Brian McWilliams su «Newsbytes» del 27 settembre successivo. Del resto, notizie d’un possibile prossimo grave attacco terroristico erano filtrate da tempo, e si rimbalzavano tra i servizi d’intelligence di vari paesi: giornali e organi radiotelevisivi ne parlarono solo qualche giorno dopo l’attentato, citando comunque fonti attendibili. Più enigmatica ancora la faccenda delle indicazioni della Borsa: nel corso delle tre settimane precedenti gli attentati, l’Indice Dow Jones precipitò perdendo 900 punti, e tra il 6 e il 7 settembre le azioni delle United Air Lines, la compagnia titolare dei due aerei schiantatisi l’11 contro le torri, registrarono 4.744 opzioni di vendita contro sole 396 d’acquisto: era cioè in atto una forte speculazione sulla previsione d’un calo di valore. Una coincidenza?

Altri elementi del «giallo» relativo all’attentato e ai suoi inquietanti dintorni riguardano la meccanica dell’impatto dei due aerei e dei crolli delle due torri e di altri edifici adiacenti l’episodio che ebbe come oggetto il Pentagono, e che venne rapidamente messo da parte nel vorticoso giro di notizie successive. In un primo tempo si ritenne che le reticenze relative ad esso – addirittura il sostanziale silenzio sul numero e sull’entità delle vittime – nascessero dal comprensibile imbarazzo delle autorità statunitensi dinanzi al fatto che fosse stato violato e colpito con tanto apparente facilità il cuore della massima potenza militare del mondo. Affiorarono più tardi i dubbi, relativi addirittura al fatto che davvero l’edificio dell’Alto Comando Usa fosse stato colpito dal Boeing 757-200 del volo 77 dell’American Airlines, dirottato dalla linea Washington Dulles-Los Angeles: dal momento che di quel volo si sono perdute le tracce, ma sul suolo, nelle adiacenze del Pentagono, non si sono mai trovati rottami per qualità e quantità ad esso sicuramente riconducibili.

E perché si era abbuiato quasi immediatamente la notizia diffusa da «Abc» dell’immagine in diretta di un incendio sviluppatosi alle 9,42 dell’11 settembre in un annesso della casa Bianca, l’Old Executive Building? Perplessità ulteriori nacquero in seguito all’analisi della personalità e dei curricula dei militanti fondamentalisti arrestati negli States nei giorni successivi, e dalle connections emerse tra alcuni di loro e i servizi d’intelligence

Qualche interrogativo è sorto anche a proposito del tempo passato dal presidente Bush, nel giorno dell’attentato, a bordo dell’Air Force One. Ancora più fitti quelli a proposito del fatto che almeno al livello delle informazioni diffuse ben poco si è saputo sul possibile collegamento tra l’attentato al World Trade Center dell’11 settembre del 2001 e quello di circa otto anni prima, il 26 febbraio 1993, che era costato sei morti e un migliaio di feriti: il collegamento tra i due attentati è stato proposto da un autorevole commento del «New York Times», che si è chiesto se all’interno del World Trade Center non fosse ospitata in qualche modo una centrale d’interesse militare o un centro informativo mascherato della Cia. Quel che insomma è più volte affiorato, a proposito di un attentato del quale poco si continua a sapere – ma sul quale senza dubbio, occultamente, le indagini continuano –, consiste in un groviglio di reticenze e di contraddizioni dal quale emergono sospetti di rivalità tra le organizzazioni statunitensi cui è affidata l’intelligence, di possibile attività di organizzazioni politiche o paramilitari diffuse nel paese, di troppo sicura e precipitosa attribuzione di responsabilità che si è lasciato dietro il sospetto persistente di dipendere da un disegno in tutto o in parte preordinato o di voler allontanare l’ipotesi di interferenze derivanti da tensioni interne o internazionali di tipo diverso da quelle collegate alle persone e agli ambienti indicati come gli organizzatori dell’attentato. Rispetto ai quali, anche la fretta di esibire prove definitive di colpevolezza, sempre ribadite come esistenti e mai esibite, ha talora condotto anche a risultati maldestri: come la videocassetta «fortunosamente rinvenuta» a Jalalabad ai primi del dicembre del 2001, che avrebbe dovuto dimostrare senz’ombra di residui dubbi la colpevolezza di Osama Bin Laden, e ch’era un falso così evidentemente grossolano che – nonostante Bush si fosse ostinato, nei giorni immediatamente successivi, a fieramente difenderne l’autenticità – scomparve quasi subito nel nulla. Intanto emergevano dubbi sugli esecutori materiali dell’attentato, sulla loro identità, sulle circostanze che li avevano portati a circolare liberamente in America per troppo tempo, sui molti casi di omonimia che al riguardo si registravano.

Di queste incoerenze, di queste troppe e troppo numerose smagliature nei fatti dell’11 settembre e nel loro immediato accoglimento da parte dell’opinione pubblica, possiamo forse parlare con qualche serenità oggi: anche perché una loro fedele e convincente ricostruzione non c’è mai stata e, ora che la versione «vulgata» si è definitivamente decantata al loro riguardo, essi hanno cessato di far notizia. Ma la versione ufficiale del governo statunitense, da allora, è che l’11 settembre del 2001 ha impresso un corso nuovo alla storia, e che ciò basta a giustificare le due guerre, in Afghanistan e in Iraq. Due anni dopo, allora, è lecito domandarsi se queste due guerre hanno fatto finalmente chiarezza sulle responsabilità di quel giorno terribile e se hanno contribuito davvero ad assicurare alla giustizia i responsabili di esso: o se, invece, sono servite in realtà ad altro. A che cosa? Fino dal 1999 gli attuali consiglieri del presidente Bush, il gruppo dei cosiddetti neoconservatives, sostenevano che era necessario per gli Usa passare a una nuova fase del controllo egemonico del mondo, caratterizzata da un forte intervento anche militare. Ma sostenevano anche che, per legittimare questo mutamento di strategia, ci sarebbero voluti anni: a meno che in qualche modo non accadesse un avvenimento sconvolgente, paragonabile a Pearl Harbour. Rileggere due anni dopo l’11 settembre 2001 queste righe, scritte due anni prima di quell’evento, mette i brividi per le prospettive ipotetiche da esse aperte. Prospettive che personalmente mi rifiuto perfino, in questa sede, di esplicitare, ma alle quali, come storico, non posso non pensare; e che, come uomo e come cittadino, mi riempiono di raccapriccio.

Le immagini

11 settembre; immersi in una crisi planetaria

E se gli aerei fossero stati teleguidati?