Dossier
Italiane rapite, la trattativa per il rilascio
Ma, dunque, chi ha trattato sul campo? «Una delegazione italiana, con un mediatore iracheno», si limita a dire Al Rooz.
Gli 007 italiani – con l’aiuto dei servizi kuwaitiani, giordani, siriani e libanesi – fin dai primissimi giorni avevano ipotizzato che la banda di rapitori potesse essere composta non da estremisti islamici, ma da persone (l’area è quella baathista e dell’ex Mukabarat, i servizi segreti di Saddam) più pragmaticamente interessate al risvolto economico del sequestro, anche se sempre connotate politicamente in chiave anti-coalizione e anti-Usa. Sunniti nazionalisti, islamici ma non integralisti, connotati politicamente e comunque interessati anche ad un tornaconto economico. Moderati, se così si può dire, ma con la preoccupazione sia di autofinanziarsi che di accreditarsi presso il nuovo governo iracheno. Del resto, se i rapitori avessero voluto «utilizzare» gli ostaggi per salire alla ribalta mondiale si sarebbero comportati diversamente.
I «sedici tentativi» portati avanti dal Governo sono stati a tutto campo: è stato sondato il mondo sciita, quello sunnita, si è cercato la collaborazione dei governi e dei Servizi segreti dei Paesi arabi, delle forze della Coalizione. Dal Kuwait e dalla Giordania sono arrivati i risultati più importanti. E la liberazione avvenuta proprio nel giorno della visita a Roma del re Abdallah, che Berlusconi ha ringraziato pubblicamente «per il ruolo particolarissimo che hanno svolto i servizi segreti giordani», forse non è casuale. Da alcuni giorni, grazie anche ai sistemi di intercettazione americani satellitari, c’era stata non solo una nuova conferma dell’esistenza in vita di almeno una delle due italiane, ma era stata anche localizzata la prigione delle italiane. Berlusconi lo ha confermato, ma ha pure spiegato che la strada del blitz era troppo rischiosa. Per questo sono state scelte «altre strade, quelle della trattativa».
«Al Rai al Aam», il più vecchio giornale del Golfo nato nel 1961, è uscito annunciando che gli ostaggi erano vivi e stavano bene, venerdì 24 settembre, quando dai siti Internet arrivavano messaggi di morte atroci. La misteriosa e informatissima fonte in Iraq, già da un anno, cioè da quando il giornale ha assunto Isham Fahim come corrispondente, non ha mai sbagliato, «ma in questi casi non si sa mai come può andare a finire», aveva detto all’Ansa al Roz. Il sospiro di sollievo è arrivato sabato – il giorno dopo l’annuncio che gli ostaggi erano vivi – quando la fonte ha precisato le richieste per un cibo «strano»: Simona Pari è vegetariana. «Allora ho avuto la certezza che potevamo fidarci in tutto e per tutto».
Lunedì 27 settembre, la fonte aveva fatto sapere che i negoziati erano a un buon punto, che erano cadute le condizioni «politiche» – i rapitori avevano inizialmente chiesto il ritiro dei 3.000 soldati italiani in Iraq – ed era stato raggiunto un accordo per un milione di dollari di riscatto, contro i 5 milioni voluti all’inizio. La metà della cifra era già stata consegnata, il resto sarebbe arrivato con la consegna dei sequestrati «entro venerdì, se non ci sono intoppi». Martedì 28, mezz’ora prima dell’annuncio di al Jazira, è arrivata la telefonata da Baghdad: «tutto bene, stai con gli occhi aperti».
I sequestratori, sostiene al Roz, fanno parte di un gruppo di islamici, che si definisce «jihadista», ma non sono estremisti. Il suo giornale, dice al Roz, ha avuto un ruolo «per creare l’atmosfera giusta» al rilascio delle italiane, «per risvegliare la coscienza dei rapitori», ma non ha fatto da mediatore. «E’ un giornale privato e assolutamente indipendente», afferma al Roz. «Abbiamo cercato di far capire che queste ragazze erano in Iraq per una nobile causa, nulla di più», dice il direttore responsabile e padrone del quotidiano, Jassim Boodai, che lo ha comprato nel 1996 e con al Roz si sono gettati nell’impresa di fare un giornale nuovo.
Ma se il pagamento fosse stato fatto da altri? «Scusate – ha risposto Scelli – e chi le ha portate a casa le ragazze?». Il commissario ha quindi invitato i giornalisti a guardare i piani di volo: «Sono partito da Ciampino ieri mattina alle 5.45, con un appuntamento prefissato. Siamo rientrati alle 23.15, dopo otto ore in cui siamo stati in una stanza ad attendere che ci venissero consegnati i quattro ostaggi a fronte di un impegno a restare nonostante ci sia il rischio di rapimento per un occidentale, soprattutto italiano, e di un potenziamento della nostra attività. A fronte cioè di un sostegno ribadito alla popolazione venuto meno da una scelta delle ong che, ovviamente, hanno paura che possa accadere qualche cosa».
All’Espresso Scelli ha raccontato qualche dettaglio della trattativa durata sei ore per la liberazione delle due operatrici. «Ci hanno bendato. Per farci perdere il senso dell’orientamento ci hanno fatto vagare come trottole per Baghdad. Poi in una casa, dopo un interrogatorio serrato, hanno accusato le due Simone di essere delle spie». E Scelli, nell’intervista sottolinea che gli hanno messo in mano una pistola, «era quella, mi hanno spiegato, destinata ad uccidere le due volontarie» e che poi avrebbe consegnato ai magistrati romani.
«Alla fine, dopo aver trattato sugli aiuti umanitari e dopo che Navar (medico iracheno nell’ospedale della Cri a Bagdhad e figlio di un insigne professore universitario iracheno molto stimato dal vertice degli Ulemaha, ndr), aveva giurato sul Corano che Scelli era un uomo d’onore, siamo risaliti in macchina, per scendere vicino alla grande Moschea» continua il racconto all’Espresso del commissario della Croce Rossa. «Lì – continua Scelli – abbiamo incontrato Simona Pari e Simona Torretta. Con accanto la troupe di Al Jazeera, avvertita da fonti irachene, pronta a riprendere l’incontro e a mandarlo in onda per essere diffuso da tutte le televisioni del mondo».