Dossier
Un’estate in missione
L’occasione del viaggio è stata l’ordinazione di un giovane brasiliano, che si è svolta nella chiesa di San Francesco a Mangabeiras, una delle due parrocchie (l’altra è quella di Nostra Signora di Loreto) affidate a due sacerdoti «Fidei donum» della diocesi di Siena, don Gianfranco Poddighe (in Brasile da 5 anni) e don Ugo Montagner (in Brasile da 11 anni, dopo precedenti esperienze missionarie). Il legame con la diocesi di Balsas risale ai primi anni ’70, quando don Ferdinando Neri avviò la missione: i comboniani erano arrivati in quelle terre da pochi anni, e avevano interpellato diverse diocesi italiane per chiedere l’invio di sacerdoti in una zona che ne era assolutamente carente.
«Oggi – spiega monsignor Buoncristiani – molte cose sono cambiate: per certi versi, possiamo dire che la nostra ormai è terra di missione più del Brasile». Prima di arrivare a Siena, Buoncristiani ha avuto occasione di trascorrere alcuni anni sia in Africa che in America Latina, e si è fatto un’idea precisa: «Quella africana è una Chiesa bambina, che muove i primi passi ancora incerti. Quella sudamericana è una Chiesa giovane, con tanta energia ma anche con il rischio di sbandate: la nascita di forme di religione sincretistiche, l’avanzare delle sette… La nostra, d’altra parte, è una Chiesa vecchia, con tutti i problemi legati all’invecchiamento: stanchezza, perdita di entusiasmo…» Ma una Chiesa adulta, allora, dove è possibile trovarla? «Esiste solo come meta verso cui tendere» sorride il Vescovo, e aggiunge: «Ma non dobbiamo dimenticare che la Chiesa la conduce Dio. Questo ci fa essere al tempo stesso umili e pieni di speranza».
Il progetto consiste nella costruzione di una struttura scolastica, che possa servire a bambini e bambine di Keren, cattolici, ma anche musulmani, che nella regione sono la maggioranza. I due centri toscani, oltre all’impegno per la costruzione della scuola, si occuperanno anche di mantenere la struttura e pagare gli insegnanti che vi lavoreranno, per i prossimi tre anni. Un progetto importante dunque, che però non è il solo che è stato realizzato in Eritrea. «Nella zona abbiamo già costruito diversi pozzi e sorgenti – spiega Laura Calvanelli, della Caritas di Firenze -. Anche grazie ai fondi di Publiacqua abbiamo potuto creare diverse fontane ed è stato recuperato un invaso collegato ad una diga. Il secondo grande progetto riguarda, appunto, la scuola, e poi con la Caritas di Milano e la Caritas Italiana è iniziato un progetto di educazione e monitoraggio sull’Aids, uno dei mali maggiori che affligge il Paese».
Piccoli e grandi progetti che permettono di aiutare molte persone per assicurare loro una vita quanto meno dignitosa. La visita dei due Vescovi nella diocesi di Keren dunque segna una tappa importante nell’operato della Caritas in Eritrea. La delegazione partirà da Roma proprio nel giorno dell’Assunzione della Beata Vergine, arriveranno ad Asmara, la capitale dell’Eritrea, e lì passeranno la prima notte del loro viaggio, in attesa che vengano sbrigate tutte le formalità per entrare nel Paese. Poi lo spostamento nella Diocesi di Keren, la visita al Vescovo e un sopralluogo alla struttura appena costruita. I Vescovi avranno la possibilità di toccare con mano la difficile situazione in cui versa questo Paese martoriato da una forte dittatura. «La situazione in Eritrea è davvero difficile – sottolinea Laura -. La dittatura cui sono sottomessi i cittadini è molto dura, e anche portare a compimento progetti di aiuto umanitario è diventato sempre più difficile. Lo scorso dicembre tutti i referenti delle organizzazioni non governative che operavano in Eritrea sono stati allontanati e fatti uscire dal Paese».
Il momento centrale del viaggio nella diocesi di Keren sarà la consegna ufficiale della scuola che sarà una struttura di istruzione privata. Il viaggio durerà quattro giorni: quattro giorni intensi, senza dubbio. «La percentuale dei cattolici in Eritrea è molto bassa rispetto a quella dei musulmani – spiega Andrea Gori, vicepresidente della Caritas di Firenze -. Si è calcolato che siano appena il 2% della popolazione, ma il lavoro che stiamo facendo è per tutti, cattolici e musulmani, senza differenza di sorta. Un lavoro che è di aiuto a tutta una popolazione che vive insieme, in pace, da sempre, nelle sue diversità». Il rientro della delegazione è previsto per sabato 19 agosto: i due Vescovi, e con loro i rappresentanti delle Caritas di Firenze e Prato, torneranno cambiati, sicuramente, da un’esperienza così forte.
Dal 1994 è vescovo. Un vescovo con il saio che ha fatto della Bolivia la sua patria d’adozione. «Guidare un vicariato come quello di Camiri-Coevo non è una passeggiata», ha confidato più volte al vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, Gualtiero Bassetti. Fosse soltanto una questione di numeri, ci sarebbe da demoralizzarsi: appena undici sacerdoti in un’area che potrebbe andare dalle Alpi all’Emilia Romagna. Invece, Bernacchi non si è mai scoraggiato. E, anzi, dalla Bolivia non ha perso occasione di chiedere un aiuto.
All’appello del francescano ha risposto la sua diocesi d’origine, quella di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, da cui arriva il giovane sacerdote che fra un paio di settimane lascerà l’aretino e si trasferirà in America Latina. E’ don Stefano Braconi, 34 anni, una laurea da ingegnere elettrico in tasca e prete da appena un anno, che diventerà missionario «Fidei Donum» dopo aver trascorso qualche mese nella parrocchia di Lucignano.
Ad accompagnarlo in Bolivia sarà proprio il vescovo di Arezzo, Gualtiero Bassetti, che ha scelto il vicariato Camiri-Coevo come tappa del suo annuale viaggio missionario in programma dal 16 al 27 agosto. «Oggi più che mai – spiega Bassetti – è necessario far sentire il sostegno di una diocesi ai missionari che si trovano in terre lontane e difficili. E questo vale ancor di più per una Chiesa come quella aretina che ha ottantacinque missionari, per lo più religiosi, sparsi per il mondo».
In Bolivia Bassetti era stato quattro anni fa. «È stato un viaggio – spiega – che mi è servito per capire le necessità pastorali del vicariato apostolico retto dal vescovo Bernacchi». Così quando don Braconi ha chiesto di poter fare un’esperienza missionaria, la scelta del vescovo è caduta sul Camiri-Coevo dove sono già presenti alcuni francescani della diocesi aretina.
Gualtiero Bassetti non è certamente un neofita dei viaggi missionari. Anzi, la sua volontà di guardare ai Paesi in via di sviluppo ha radici lontane. «È stato il cardinale Silvano Piovanelli che mi ha trasmesso questa sensibilità quando ero vicario generale di Firenze», racconta. Ormai sono anni che Bassetti riserva una particolare attenzione ai missionari e dedica un periodo dell’anno al mondo che non ha voce. «È una scelta pastorale precisa – dice – E per un vescovo è opportuno allargare la mente e gli orizzonti oltre i confini della propria diocesi».
Anche la Chiesa aretina è vicina alle missioni. E lo dimostra sia la scelta di don Braconi sia l’imminente partenza di un laico comboniano, Claudio Gori, della parrocchia dell’Orciolaia, alla periferia di Arezzo, che si trasferirà in Mozambico. «Si tratta di un messaggio significativo che arriva dall’aretino – spiega Bassetti – Soprattutto in un momento in cui l’esperienza dei sacerdoti “Fidei Donum” è profondamente in crisi in Italia e non riesce a fare breccia in particolare fra i preti giovani».
Un’esperienza nata sulla scia della presenza decennale delle Caritas della Toscana, particolarmente delle Caritas Diocesane di Grosseto, Volterra, Pitigliano-Sovana-Orbetello, Siena e Pescia in seguito al conflitto che fino alla metà degli anni ’90 ha sconvolto le vite delle popolazioni della Bosnia-Erzegovina.
Un’esperienza che, superata la fase di gestione dell’emergenza, soprattutto sotto il versante della ricostruzione post-bellica (sebbene tantissimi siano a tutt’oggi i passi da fare ), attraverso una presenza costante e qualificata delle Caritas, caratterizzata da uno stile di prossimità alle vittime di questi eventi tragici, ha assunto i tratti forti ed innovativi di proposte di percorsi di riconciliazione, a partire dalla rilettura e rielaborazione del conflitto, per dare volti concreti alla pace.
Ed è proprio la dinamica del conflitto e soprattutto delle prospettive di riconciliazione ad aver caratterizzato l’esperienza che 9 giovani toscani, Elisabetta, Margaret, Alessio, Patrizia, Elisa, Linda, Anna, Sara e Giulia, di cui ben 7 ragazzi e ragazze del servizio civile delle Caritas della Toscana, hanno vissuto dal 9 al 16 luglio scorsi, nella zona di Derventa, nel nord della Bosnia, una cittadina che ancora oggi porta evidenti i segni e le ferite sia nelle costruzioni, ma soprattutto nelle persone e nei vissuti, di una guerra lacerante, che ne ha segnato per sempre la vita e le storie.
La «Scuola di pace», questo il nome voluto fortemente dalla Caritas di Bosnia, organizzatrice dell’evento, si caratterizzava per alternare momenti di formazione, attraverso la conoscenza di esperienze, di vissuti, e un approccio alle dinamiche del conflitto e delle prospettive di riconciliazione, a momenti di lavoro pratico in mezzo alla popolazione locale.
Ma è attraverso le parole di chi ha vissuto questi giorni che, indubbiamente, può emergere la vita fluita nei momenti trascorsi in terra di Bosnia. Elisabetta e Margaret, che possono a ragione considerarsi le «veterane» di questa presenza Caritas nel territorio della Bosnia-Erzegovina, poiché, nel corso degli anni, ogni estate hanno dato il loro contributo in termini di vicinanza, lavoro e accoglienza, affermano come «questa settimana trascorsa a Derventa, in mezzo alle persone, a contatto con la vita di tutti i giorni attraverso le mille situazioni che si propongono, ogni volta si rivela come un’esperienza segnata da novità, che arricchisce, ti aiuta nel crescere, soprattutto nella prospettiva del ritorno nella propria quotidianità».
«Un’esperienza formativa unica, perché non capita tutti i giorni di poter condividere la vita con ragazzi della propria età che hanno vissuto la guerra», afferma Giulia, che prosegue dicendo come «si è toccato con mano la situazione che ancora oggi, a distanza di più di dieci anni, la gente ancora vive».
Una situazione di disagio e di povertà che, però, ammette Sara, non ha impedito di «farmi sentire accolta da persone pronte ad offrire anche la propria povertà come testimonianza del loro affetto». Ma è la «sorpresa» l’elemento caratterizzante dell’esperienza di Anna, una sorpresa che nasce dalla condivisione profonda dei momenti di formazione intensi e dei momenti di lavoro, una sorpresa, prosegue, nell’«essere riusciti a comunicare anche senza la parola e dall’aver riempito il cuore di emozioni e volti indimenticabili». «Emozioni», prosegue sempre Anna, «fatte di rabbia, gioia, tristezza, amarezza, delusione, tenerezza, spirito di gruppo, integrazione, speranza ».
«Due le cose che hanno caratterizzato quest’esperienza», afferma Patrizia, «da una parte la bellezza di aver potuto comunicare a 360 gradi, non solo attraverso le parole, soprattutto quei sentimenti e quelle emozioni che stanno al profondo del vivere umano, nonostante le oggettive difficoltà legate anche alla lingua; dall’altra, l’aver respirato quel clima di familiarità che ti fa sentire a casa».
«Mi ha colpito particolarmente la presenza di forti situazioni di disagio e di povertà», dice Alessio, unico maschio del gruppo, «in cui, specialmente nella campagna, talune famiglie vivono; ti rendi conto, poi, stando a contatto con le persone, nei propri ambienti, che ci sono certe situazioni umane, di fronte alle quali il giudicare è l’ultima cosa che ti passa per la mente».