Dossier
Il Cristo della storia
Romanzi come «Il codice da Vinci» o saggi come l’«Inchiesta su Gesù» di Corrado Augias e Mauro Pesce: sono tanti i libri usciti negli ultimi tempi che mettono in discussione la «storicità» dei Vangeli, facendo passare l’idea che dalla ricerca storica potrebbe emergere un Gesù diverso rispetto a quello della tradizione cristiana. Si arriva persino a insinuare il sospetto che la Chiesa abbia voluto, nel corso dei secoli, manipolare o nascondere alcune fonti per offrire ai credenti un’immagine di Gesù non corrispondente alla realtà.
Questa tendenza mette in dubbio l’essenza stessa del cristianesimo: la fede cristiana infatti si fonda sull’incontro personale con Gesù e non può prescindere dalla realtà storica della sua incarnazione, morte e resurrezione. La ricerca storica quindi, condotta in modo serio, non contraddice la fede ma anzi le offre basi più solide. Toscanaoggi propone un itinerario quaresimale in cinque puntate per conoscere il «Gesù della storia», che è anche il «Gesù della fede».
di Angelo Silei
di Angelo Silei
Noi viviamo ogni anno nella festa del Natale il ricordo della sua nascita nella notte del 25 dicembre, ascoltiamo il racconto dei vangeli, facciamo il presepe, mettiamo i personaggi, pensando di rappresentare una scena storica precisa e circostanziata. Forse ci affidiamo a quei racconti come fossero cronaca. D’altra parte non abbiamo altro per raccontare il dove e quando della sua nascita.
La scienza storica però si trova un po’ in imbarazzo davanti a quelle scene: angeli, una luce, pastori, magi, una stella, un viaggio, Giuseppe il giusto e Maria vergine, Cesare Augusto, Quirinio, Erode, Nazaret, Betlemme. Certo se fosse cronaca sarebbe anche troppo. Ma i vangeli sono interessati al significato di ciò che accadde, più che ai dati anagrafici. E quindi occorre passare al vaglio tutti queste notizie.
Intanto sgombriamo subito il campo da un primo dato legato alla data del 25 dicembre. La collocazione della Nascita di Gesù in quel giorno non è scritta in nessun documento. Essa fu stabilita nel IV secolo quando si cominciò a celebrare solennemente la festa e la scelta si ispirò ad una festa pagana e a una festa ebraica. La festa pagana era quella del Sole Invitto che si celebrava subito dopo il solstizio d’inverno (21 dicembre): Gesù è il vero sole che illumina il mondo. La festa ebraica è quella che cade il 25 di Kasleu, mese invernale che corrisponde quasi al dicembre, e che ricorda la Dedicazione del Tempio da parte di Maccabei dopo che era stato profanato da Antioco nella prima metà del II sec a.C.: i cristiani così trovarono una degna sostituzione alla festa ebraica.
La liturgia quindi non definisce un evento anagrafico, ma celebra il senso di quella nascita. Ma i vangeli offrono riferimenti storici interessanti per determinare la nascita di Gesù.
Sono i vangeli di Matteo e di Luca a interessarsi dell’argomento e ad offrirci notizie. Essi hanno all’inizio due capitoli che raccontano con linguaggio e stile ricercato gli avvenimenti della nascita e infanzia di Gesù. Al dove e quando, tutti e due rispondono nello stesso modo: a Betlemme e al tempo del re Erode.
La prima notizia ci porta nella Giudea vicino a Gerusalemme (Mt 2; Lc 2). Non in Galilea, come ci si aspetterebbe dal momento che Gesù è conosciuto come Galileo di Nazaret. Anche Giovanni attesta questa provenienza nel suo vangelo mettendo sulla bocca della gente questa domanda: «Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di David e da Betlemme, il villaggio di David?» (7,42). Anche se sempre poi si parla di Gesù come il Nazareno, Betlemme resta un punto fisso per indicare la sua nascita. Anche la tradizione e la archeologia conducono a Betlemme nella Basilica della Natività. Il luogo era venerato già alla fine del I sec.: l’imperatore Adriano infatti intorno al 130 d.C. fece edificare un tempietto a Cupido, il bambino dio dell’amore, proprio là dove si venerava la nascita di Gesù. Resta aperta l’indagine se tutto questo corrisponda ad un dato storico oppure ad un’esigenza scritturistica (l’origine davidica del messia).
La seconda notizia ci porta al tempo del re Erode (Mt 2,1: Lc 1,5). Si tratta di Erode il grande, il più famoso monarca della dinastia, che fu re della Palestina per 37 anni a cominciare dal 41 a.C.. Il suo carattere di re sanguinario trova una corrispondenza precisa nella strage dei bambini di Betlemme e nella sua paura di essere soppiantato da un altro re.
Matteo e Luca ci offrono altre notizie storicamente verificabili per precisare il tempo della nascita di Gesù. Matteo offre un riferimento astronomico: l’astro che guidò i magi. L’evento si riferisce a qualcosa che accadde in quel periodo: il passaggio della cometa di Halley nel 12 a.C. (che però non era un segno propizio, tutt’altro, le comete erano un segno nefasto) oppure più probabilmente la congiunzione di due pianeti, Giove e Saturno, nel 7 a.C.. Luca offre, oltre al tempo di Erode, due riferimenti temporali quando colloca l’inizio della predicazione di Giovanni «nell’anno quindicesimo dell’imperio di Tiberio Cesare» (3,1) e quando dice che «Gesù aveva circa 30 anni quando incominciò il suo ministero» (3,23). Questo «circa» lascia spazio a incertezze, ma i 30 anni prima ci portano alla fine del regno di Erode (che infatti morì pochi anni dopo a Gerico, nel 4 a.C.).
I vangeli ci danno inoltre notizie coerenti sulla sua famiglia e sul suo paese. Una famiglia di artigiani composta da Giuseppe e Maria e molti parenti («fratelli e sorelle»). Un paese piccolo della Galilea sconosciuto alle Scritture Sante e anche alla geografia reperibile di quel tempo. Anche se nato a Betlemme, Gesù fu conosciuto come Gesù di Nazaret e i suoi discepoli – almeno all’inizio – come Nazareni. A Nazaret Gesù è cresciuto, imparando il lavoro di Giuseppe e partecipando della vita sociale e religiosa del suo piccolo paese nell’alveo di una famiglia osservante. Non c’è bisogno di immaginare più di quello che i vangeli ci dicono sul tempo della sua infanzia e giovinezza. Anzi proprio il loro silenzio ci fa immaginare una vita comune, senza colpi di scena, nascosta, al ritmo di una piccola comunità di contadini fuori di ogni concentramento urbano. Qui Gesù è cresciuto: è arrivato alla maturità, lavorando, frequentando la sua sinagoga, formandosi alla lettura delle Scritture, partecipando alla vita del villaggio. Nessuno stupore durante quegli anni per la gente di Nazaret. Lo stupore ci fu quando si presentò un sabato a leggere e predicare. Nessuno si aspettava tanto dal «carpentiere, il figlio di Giuseppe». Tutti lo conoscevano come Yehoshua ben Yosef.
A cominciare dal II secolo all’interno della comunità cristiana, soprattutto di matrice giudaica, si sono prodotti racconti interessanti, soprattutto sui fatti relativi alla nascita e infanzia di Gesù. Essi tendono a riempire i vuoti lasciati dai quattro vangeli canonici, e raccontano di Maria e dei suoi genitori, della sua nascita e della sua infanzia, raccontano di Giuseppe e del suo matrimonio, arricchiscono il racconto della nascita di Gesù e della sua infanzia. Il più famoso di questi vangeli è il Protovangelo di Giacomo, così chiamato perché narra avvenimenti che precedono il tempo del classico vangelo (pensiamo a quello di Marco che inizia con la predicazione di Giovanni e di Gesù).
Il più stimato invece è il Vangelo di Tommaso, una raccolta di 114 detti di Gesù: questo scritto riscuote grande interesse e attenzione per la sua solida tradizione. Ci sono poi vangeli che raccontano della morte e della resurrezione.
Queste testimonianza sono sempre state considerate con molta prudenza anche dalla Chiesa, sia perché tardive (sono lontane più di 100 anni dagli avvenimenti raccontati) sia perché rispecchiano una certa teologia sospetta di esagerare le prerogative divine di Gesù a scapito della sua autentica umanità. Dobbiamo però riconoscere che esse hanno nutrito la devozione, la liturgia e la riflessione delle comunità cristiane (pensiamo alla festa e alle immagini della Presentazione di Maria al tempio, di Maria Bambina, del matrimonio con Giuseppe; ricordiamo i nomi e la memoria di Giovacchino e Anna). Restano molti discutibili i dati storici di questi libri, ma non possiamo escluderli in blocco. Il vaglio necessario lascia nella rete qualche perla preziosa.
di Angelo Silei
I quattro vangeli si occupano di questo periodo e di questa attività di Gesù, mostrando un’attenta conoscenza dell’ambiente palestinese del primo secolo.
In Palestina, e in particolare in Galilea, c’erano molti rabbì: queste figure avevano onore e prestigio, e ne avranno ancora di più dopo la distruzione del tempio. Basti ricordare rabbì Hillel e rabbì Shammai, vissuti durante il regno di Erode il Grande. Quanto all’ambiente la Palestina di Gesù è soprattutto un mondo di contadini e di artigiani, di gente di paese più che di città, animato da movimenti di ogni tipo, religiosi (come i farisei e gli esseni), politici (erodiani e sadducei) e anche militari (vedi gli zeloti, partigiani giustamente ribelli ai romani). La situazione era a dir poco esplosiva: 100 anni di occupazione romana non erano riusciti ad addomesticare le ansie di libertà del popolo. Tutto precipitò in un bagno di sangue e in una tragedia nazionale pochi decenni dopo, nel 66 d.C., fino alla presa di Gerusalemme e alla distruzione del tempio nel 70. Quando Gesù uscì dal silenzio di Nazaret non entrò in un mondo pacifico e bucolico, ma in mezzo a un popolo con grandi tensioni di ogni tipo. Questa situazione possiamo conoscerla leggendo con attenzione i vangeli, ma la conosciamo anche da altre testimonianze.
Quella più interessante è certamente quella di Giuseppe Flavio che nel primo secolo scrisse libri imponenti, uno sulla Storia d’Israele (Antichità giudaiche) e uno sulla guerra contro i romani (La guerra giudaica). Per avere un piccolissimo saggio dal primo libro ecco un passaggio relativo al tempo che precede di poco il ministero di Gesù: «Dopo Cesare salì sul trono Tiberio, figlio di sua moglie Giulia; egli inviò Valerio Grato a succedere ad Annio Rufo quale governatore dei giudei. Grato depose Anano dal suo sacro ufficio e proclamò sommo sacerdote Ismaele, figlio di Fabi; dopo un anno lo depose e, in sua vece, designò Eleazaro, figlio del sommo sacerdote Anano. Dopo un anno depose anche lui e all’ufficio di sommo sacerdote designò Simone, figlio di Camitho. L’ultimo menzionato tenne questa funzione per non più di un anno e gli successe Giuseppe, che fu chiamato Caifa. Dopo questi atti Grato si ritirò a Roma dopo essere stato in Giudea per undici anni. Venne come suo successore Ponzio Pilato» (Ant. Giud XVIII,2).
Il ministero di Gesù sta fra due date abbastanza precise che gli storici hanno potuto stabilire: l’inizio dell’anno 28 d.C. con Giovanni Battista e il suo battesimo e il 7 aprile del 30 d.C. con la morte in croce sotto Ponzio Pilato. In questa breve fessura nel tempo sta tutto ciò che Gesù disse e fece.
Vi entrano tre Pasque, proprio come racconta il vangelo secondo Giovanni. A questo proposito i lettori del Nuovo Testamento non possono disattendere un’osservazione che la dice lunga sul criterio di composizione dei vangeli, soprattutto di quelli più antichi. I vangeli sinottici infatti presentano la figura di Gesù racchiudendo tutto nello spazio di poco meno di un anno. Marco per primo fece questa scelta e sulla stessa strada lo hanno poi seguito Matteo e Luca: si racconta di una sola Pasqua, quella della morte di Gesù, avvenuta dopo un ciclo operativo di qualche mese in Galilea e poi una settimana a Gerusalemme. È solo grazie al più tardivo ma più preciso vangelo secondo Giovanni che noi possiamo ricostruire l’attività di Gesù in tre anni e con vari percorsi fra Galilea a Gerusalemme.
All’inizio sta per tutti la predicazione di Giovanni Battista, personaggio conosciuto anche da altre fonti, sia per la sua predicazione esigente sia per il suo rapporto con Erode di cui fu vittima. Giuseppe Flavio ne parla più volte con molto rispetto e ammirazione. «Erode aveva ucciso quest’uomo che esortava i giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo Quando altri si affollavano intorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado (di interesse), Erode si allarmò. Una eloquenza, che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione. Perciò decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione A motivo dei sospetti di Erode, Giovanni fu portato in catene nella fortezza del Macheronte e qui fu messo a morte» (Ant. Giud. XVIII, 117-119). Questo notizie storiche inoppugnabili offrono consistenza anche alle notizie dei vangeli.
La scintilla che ha dato inizio al ministero di Gesù è l’incontro con il Battista. Come uditore e come discepolo. Ne è prova evidente il battesimo ricevuto da lui, in una fila di gente che scende nelle acque del Giordano. Anche i primi discepoli Gesù li raccoglie fra i discepoli di Giovanni (Andrea, Giovanni, Pietro, Filippo). Poi Gesù se ne distacca per svolgere la sua missione con il suo stile e il suo messaggio, solo in parte simile ma molto di più differente da quello del Battista. Simile nell’annuncio del regno di Dio che viene; diverso nel vangelo della misericordia di Dio e nella vita in mezzo alla gente. Nella ricostruzione della figura storica di Gesù non possiamo fare a meno di un riferimento stretto con la figura profetica del Battista.
L’archeologia qui ha dato un grande contributo al racconto evangelico con gli scavi nel sito di Cafarnao, la scoperta della dimora di Pietro e famiglia, e all’interno una stanza che fu la dimora di Gesù, luogo del suo insegnamento e del suo riposo. Se Gesù ha un luogo di riferimento questo è la sinagoga, assiduamente frequentata da Gesù, prima a Nazaret poi a Cafarnao e nei paesini della Galilea. Alla fine sarà presso il tempio di Gerusalemme a confrontarsi con gli altri maestri.
Quanto ai miracoli, essi rappresentano una grande parte dei racconti evangelici. Essi ci attestano di un’attività di Gesù come guaritore. Per Gesù essi sono segni del regno di Dio che viene. Per la gente sono una richiesta di aiuto e un segno di Dio. Gli avversari di Gesù non li possono negare. Tentano solo di attribuirli a un’insostenibile alleanza di Gesù con Satana. A inquadrare questo elemento c’è da dire che in quel tempo si raccontava di guaritori famosi, sia fra i pagani (Apollonio di Tiana) che fra i giudei. Al tempo di Gesù era ricordato Honi, il «disegnatori di cerchi», che avevo ottenuto più volte la pioggia. L’attività taumaturgica di Gesù si inserisce nel contesto di una popolazione aperta a questa possibilità.
Dall’inizio dell’anno 28 al 7 aprile del 30 d.C. così operò e parlò il Rabbì Gesù di Nazaret, uno dei tanti ma diverso da tutti.
di Angelo Silei
di Angelo Silei
Una tomba vuota. È tutto quello che rimane di lui. Non uno scritto non un cencio che gli sia appartenuto né tanto meno una reliquia del suo corpo da venerare. Solo una tomba vuota. Vuota per sempre. Visitata fin dal terzo giorno dopo la sua morte e poi mai più usata, sempre venerata.
Quello che doveva essere il luogo della sua definitiva sepoltura, di lui e dei suoi sogni, divenne il grembo di un nuovo vangelo. Da quel giorno il vangelo di Gesù divenne il vangelo su Gesù: Gesù aveva predicato la venuta del regno di Dio, i suoi discepoli annunciarono immediatamente la sua resurrezione. Significativa e vera la dichiarazione del fariseo Zerah alla fine del film di Zeffirelli Gesù di Nazaret: «Questo è il principio. Ora tutto comincia». La mangiatoia di Betlemme non vale il sepolcro dove Gesù fu deposto. È questo il luogo dell’inizio. Ma è un inizio dominato dal mistero.
L’indagine storica su Gesù qui è costretta a fermarsi perché il dato della fede cristiana è per l’appunto un dato di fede e non di esperienza sensibile e verificabile. Se ne possono vedere le tracce e le conseguenze ma non osservare il fatto. La resurrezione rimane un dato «scientificamente» inaccessibile.
Resta la tomba vuota, il Santo Sepolcro venerato dai cristiani a Gerusalemme. Fin dal terzo giorno meta di visite, di itinerari, e poi di pellegrinaggi. Il luogo era venerato alla fine del primo secolo. L’imperatore Adriano nel 135 lo seppellì sotto un terrapieno e ci costruì sopra il tempio Capitolino. Quando Sant’Elena volle costruire la basilica in quel luogo non fece altro che asportare il materiale e ritrovare quella tomba scavata nella roccia: nacque così la Basilica del Santo Sepolcro o – come meglio dicono gli orientali – la Resurrezione. Il luogo non è una prova ma è un documento che testimonia una venerazione antichissima e solida strettamente collegata all’annuncio della resurrezione. Se non fosse stato il luogo della resurrezione non avrebbe avuto una tale venerazione. Chi infatti non accetta questo annuncio deve trovare altre spiegazioni alla tomba vuota. E ne sono state proposte.
Il Sinedrio sostenne subito che il corpo era stato trafugato dai discepoli. Un cadavere sottratto alla custodia attenta delle guardie e finito chissà dove. Certo, se così fosse, non si può dire che abbiano fatto un buon lavoro visto che di quel cadavere non ne è rimasta traccia. E poi, come potevano architettare un’operazione simile dal momento che nessuno di loro si aspettava o immaginava che potesse risorgere? Lo avevano pianto e sepolto, e la visita al sepolcro era solo un atto di pietà. E tutto li colse di sorpresa. Per prime le donne che furono più impaurite che entusiaste della scoperta. E poi i discepoli che fecero molta fatica ad aprirsi a questa novità: fecero resistenza alle donne, fecero resistenza ai segnali della tomba vuota, fecero resistenza anche alle apparizioni e con fatica trovarono prove nelle Scritture.
Altri hanno detto che quella di Gesù era stata una morte solo apparente. E quindi…dal sepolcro è uscito da solo ed è andato altrove La teologia islamica ha addirittura pensato a un sosia che è morto al suo posto (o forse Simone di Cirene), e lo ha fatto soprattutto per negare una morte così scandalosa per un Inviato di Dio. A questo proposito va ammirata l’onestà intellettuale di Giuseppe Flavio, ebreo passato ai romani, che scrive: «Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno apparve loro nuovamente vivo: poiché i profeti avevano profetato queste e innumerevoli altre cose meravigliose di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti cristiani».
Quello che è visibile e verificabile, dopo la tomba vuota, è una comunità che crede e annuncia la resurrezione di Gesù. E lo fa all’inizio con qualche incertezza: gli scritti attestano che non fu facile arrivare alla fede nella resurrezione. Poi fu una testimonianza tenace, coraggiosa, di rottura con la comunità giudaica dentro e fuori Gerusalemme. Infine fu per molti occasione di testimonianza fino alla morte.
Il documento più antico di questa fede non sono i racconti evangelici, ma un testo di Paolo che si può far risalire agli inizi della vita della chiesa. Paolo è un testimone interessante dati i suoi precedenti, un testimone che ha vissuto un’opposizione feroce a Gesù e quindi anche alla sua resurrezione. Egli fu convertito nel 36 circa e svolse la sua attività apostolica negli anni 50. In una sua lettera, la Prima ai Corinti capitolo 15, scritta verso il 54 d.C., riporta una formula di fede che egli ha ricevuto da altri e quindi ancora più antica. Il tono essenziale e preciso di quella formula ne fa un testo preziosissimo della tradizione cristiana. Essa recita così: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Non c’è dubbio che questa è una formula di fede, non la conclusione di un’indagine storica. Ma anche lo storico deve confrontarsi con questo enunciato se non altro per la sua antichità.
In questa formula hanno un certo rilevo le apparizioni, eventi misteriosi che lo scienziato non può valutare. Esse testimoniano un’esperienza nuova di Gesù fatta dai suoi discepoli dopo la sua morte. Esse non possono essere ridotte a allucinazioni o invenzioni perché la resurrezione era fuori dei pensieri e delle attese degli apostoli (per rendercene conto basta leggere i vangeli che attestano la grande difficoltà dei discepoli a capire Gesù).
C’è una osservazione interessante da fare a questo punto: i vangeli sono più interessati alle apparizioni che al fatto della resurrezione. Nessun vangelo racconta il momento della resurrezione; tutti parlano delle apparizioni. Perché ciò che conta non è il fatto ma la persona di Gesù, vivo e presente di nuovo in mezzo ai suoi. Lo storico non ha che da inseguire il cammino dei suoi discepoli se vuole continuare a cercare notizie su Gesù.
Nel Vangelo di Pietro il racconto pieno di espressioni simboliche
Tra i vangeli apocrifi ce n’è uno di un certo interesse che racconta gli avvenimenti intorno al sepolcro: è il Vangelo di Pietro. È datato fra il 100 e il 150 d.C. Sono in tutto 60 versetti e alla fine portano il nome di Simon Pietro. Questo racconto si permette di raccontare anche il momento della resurrezione con un linguaggio pieno di espressioni simboliche, più teologiche che storiche.
«Di buon mattino, allo spuntare del sabato, da Gerusalemme e dai dintorni venne una folla per vedere la tomba sigillata. Ma durante la notte nella quale spuntava la domenica, mentre i soldati montavano la guardia a turno, due a due, risuonò in cielo una grande voce, videro aprirsi i cieli e scendere di lassù due uomini, in un grande splendore, e avvicinarsi alla tomba. La pietra che era stata appoggiata alla porta rotolò via da sé e si pose a lato, si aprì il sepolcro e c’entrarono i due giovani. A questa vista quei soldati svegliarono il centurione e gli anziani, anch’essi infatti stavano di guardia; e mentre spiegavano loro quanto avevano visto, scorgono ancora tre uomini uscire dal sepolcro: i due reggevano l’altro ed erano seguiti da una croce; la testa dei due giungeva al cielo, mentre quella di colui che conducevano per mano sorpassava i cieli».