Lettere in redazione
Inutili drammatizzazioni sulla scelta di Ratzinger
Libertà e consapevolezza piena: tali sono le condizioni in cui Benedetto XVI ha deciso la propria rinuncia ad esercitare il Ministero Petrino. Lo ha dichiarato lo stesso Papa emerito. A beneficio, soprattutto, di certo vaticanismo e giornalismo «fai da te», inguaribilmente propenso a furbesche «ricostruzioni» da romanzo d’appendice più che ad una seria ricerca del vero. Magari troppo faticosa e troppo poco «pagante». Un giornalismo come quello in questione ha soprattutto bisogno di «drammatizzare», ovviamente nel senso peggiore del termine. Di cercare, a tutti i costi, la contrapposizione, più o meno urlata e, se necessario, di inventarla. Proprio come avviene in certi «talk shows», i cui conduttori sono espertissimi nel creare un clima di rissa, per poi atteggiarsi a generosi «pacieri» quando l’invettiva si fa insostenibile. Inutile dire che simili squallori sono ormai insopportabili.
Ad un anno dall’annuncio di Benedetto XVI abbiamo assistito al tentativo di alcuni ambienti conservatori – rimasti probabilmente spiazzati da quel gesto – di mettere in dubbio la validità canonica della sua rinuncia al pontificato. Mi sembra che la risposta migliore sia venuta da Francesco, che ha invitato Benedetto al recente concistoro del 22 febbraio e lo ha salutato con calore. Il loro abbraccio in San Pietro, vale più di mille discorsi. Lo stesso Ratzinger ha comunque voluto dissipare alcuni dubbi, con una lettera inviata al vaticanista Andrea Tornielli, che gli aveva rivolto tre quesiti.
Il primo riguardava l’argomento più importante, ovvero la validità canonica del gesto; il secondo era sul mantenimento dell’abito bianco anche dopo la rinuncia, che qualcuno vorrebbe interpretare come segno di una possibile «diarchia» nella Chiesa; il terzo, infine, era sulla autenticità di una citazione estrapolata da una sua lettera al teologo Küng: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera».
La risposta, su carta intestata «Benedictus XVI, Papa emeritus» è molto concisa. «Non c’è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino» – scrive Ratzinger – e le «speculazioni» in proposito sono «semplicemente assurde». Meno convincente, dobbiamo riconoscerlo, è la risposta sull’abito: «Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto – scrive – è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti. Del resto porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa. Anche qui si tratta di speculazioni senza il minimo fondamento». Forse Benedetto vuol dire che essendo il primo caso di rinuncia, non esistevano «regole» o consuetudini cui aggrapparsi e la scelta è stata quella di mantenere l’abito bianco, pur con qualche differenza poco percettibile. Mi sembra sottinteso – e lo dimostra la stessa scelta del titolo di «Papa emerito» – che con la rinuncia all’esercizio del ministero petrino Benedetto XVI non ha voluto «tornare» ad essere un semplice cardinale e per questo continua a distinguersi dai cardinali anche per il segno esteriore dell’abito. Quanto alla frase citata da Küng, Ratzinger l’ha confermata in toto.
I giornalisti sono certamente liberi di indagare ed esporre dubbi o possibili incongruenze su queste inedite «dimissioni», ma i cattolici possono stare tranquilli. Non ci sono «ombre». Quello di Benedetto XVI è stato un gesto libero, coraggioso e profetico, come solo un uomo di Dio è capace di compiere.
Claudio Turrini