Caro Direttore,le nostre truppe si devono ritirare dall’Iraq? Qual è la loro funzione in questo paese, dopo il degenerare dello scontro e dopo le ultime vittime nel nostro contingente? Serve a qualcosa il sacrificio di questi ragazzi? Islam e petrolio sono una miscela esplosiva. Non ci dimentichiamo che proprio in Iraq è in corso uno scontro strisciante, non ancora allargato a tutto il mondo islamico, per ora contenuto in qualche feroce azione terroristica. Gli sciiti e i sunniti si «amano», sono sempre fratelli musulmani e si odiano, talvolta come infedeli, da secoli. Temo che Giovanni Paolo II avesse ragione quando ammoniva a non intervenire militarmente: Lui sosteneva che si sarebbero innestate guerre a catena. Forse siamo ancora in tempo ad arrestare i pericolosi giochi bellici, che ci riguardano ancora di più dell’importanza dei depositi petroliferi, nella regione in questione.È a rischio la pace mondiale? Non voglio spaventare con profezie di cataclismi, ma solo avvisare che la morte è il dolore, che oggi colpisce un paese, pure lontano, potrebbe favorire tensioni altrove, come in un grande domino. Le guerre hanno il brutto difetto di agire su due livelli: il primo è quello dell’esplosione del conflitto, duro e terribile, mentre il secondo è sotterraneo, crea le basi di nuovi lutti e distruzioni, anche a grande distanza. L’odio genera solo odio, la morte favorisce altre morti.Lettera firmataLa guerra in Iraq mostra ogni giorno di più il suo volto orribile, anche se la ripetitività degli avvenimenti rischia purtroppo di connotarli ai nostri occhi come «normalità» anche se dolorosa.Dovremmo invece riflettere, al di là di ogni schema ideologico, sulle terribili conseguenze di questa guerra che ha innescato una miscela esplosiva di odii etnici e religiosi che non può non preoccupare. Ormai ci si combatte senza esclusione di colpi in cui tutti sembrano voler gareggiare con azioni e reazioni, rafforzando così sempre più quella catena d’odio che sarà difficile rompere.Che fare adesso? Sembra ormai chiaro che le sole operazioni militari non sono sufficienti, anche perché in Iraq il conflitto ha assunto le connotazioni di una guerra civile. In quest’ottica anche la presenza dei soldati della coalizione non risolve, come non risolve un loro affrettato ritiro, perché realisticamente (e onestamente) nessuno può pensare che la partenza dei soldati stranieri determinerebbe la concordia tra i vari gruppi etnici e religiosi che, fra l’altro, non c’è mai stata: era solo sopita dal pugno di ferro della dittatura di Saddam.Le speranze molto tenui per ora sono riposte nel governo iracheno, eletto democraticamente ma estremamente fragile, e nella comunità internazionale che dovrebbe affrontare il problema con prospettive diverse da quanto fatto finora. E non è facile, anche per gli interessi che sono in gioco.La guerra si sta dimostrando ancora una volta «avventura senza ritorno» dove gli innocenti pagano sempre il prezzo più alto.