Lettere in redazione
La Pira stava bene nel Cimitero di Rifredi
Vi scrivo come per uno sfogo di delusione e di disgusto suscitate in me dall’operazione di traslazione della salma di Giorgio La Pira dal cimitero di Rifredi alla nuova sepoltura in San Marco. Sotto le speciose ragioni dell’onore alla persona, vicina ad altri grandi del passato cristiano della città e del «ritorno» nel complesso monumentale dove aveva avuto la sua umile e nascosta dimora, mi sembra manifesto invece il carattere di vertice e di immagine leggi di èlite e di politica dell’operazione.
Quanto contrastato e irriso in vita, tanto tirato per la giacca da morto. Se è questo il «presente» cristiano della città, mi pare che esso contraddica in pieno il pensiero, l’opera e la testimonianza cristiana di quel Sindaco: basti appena la toccante rievocazione di Rodolfo Doni su Toscanaoggi del 4 novembre. E mi fa piacere che il settimanale non sia andato oltre un annuncio, tutto sommato laconico, dell’evento.
Andando al cimitero di Rifredi in questi giorni di pellegrinaggio ai defunti non ci si accorge praticamente di nulla: tutto sembra intatto, tanto l’operazione è stata «pulita», ma insieme a don Giulio Facibeni e a Fioretta Mazzei, suoi intimi amici e tra i quali transitava unità di fede, di speranza e di opere, non c’è più il Professore, oggi strappato anche da quell’estrema testimonianza da lui voluta di riposare, con loro, in mezzo a quella «povera gente» (siamo nel quartiere della Pignone e della Galileo) della quale aveva saputo interpretare ed in gran parte adempiere le speranze.
La scelta di seppellire La Pira nel cimitero di Rifredi, accanto a don Giulio Facibeni, decisione fortemente voluta dall’allora arcivescovo di Firenze, il card. Giovanni Benelli, che dovette compiere quasi «un colpo di mano» per metterla in atto (alcuni parenti volevano riportarlo in Sicilia), rispondeva certamente alla volontà del «Professore». Lo aveva detto lui stesso, pubblicamente, a Galeata, commemorando don Giulio Facibeni:« Siamo tutti figli suoi… L’ho detto anche a don Corso [Guicciardini, ndr]: quando muoio mi devi seppellire lì nel cimitero di Rifredi». Perché allora questa decisione, a trent’anni dalla morte? Decisione che ne sono convinto i Padri domenicani di San Marco (suoi eredi testamentari) non hanno certo preso a cuor leggero, sapendo di andar contro alla volontà del «Professore». Il motivo è semplice, la causa di beatificazione, come ha autorevolmente detto il card. José Saraiva Martins, prefetto dell’apposita Congregazione vaticana, in un’intervista all’«Osservatore Romano», «cammina speditamente» e pur non potendo fare previsioni sui tempi, sembra davvero vicino «il giorno della sua elevazione all’onore degli altari». La traslazione della salma è stata chiesta dai due postulatori della causa, Gomez e Ricci, perché è opportuno che il corpo di un beato o di un santo sia conservato in un luogo sicuro, al chiuso, e accessibile alla venerazione dei fedeli. Dal momento della sua beatificazione quel corpo, infatti, non appartiene più ai familiari o agli eredi, ma alla Chiesa intera. E dato che questa traslazione era necessaria, quale luogo più adatto si poteva trovare in Firenze della «sua» basilica di San Marco? Stessa sorte, tra l’altro, si preannuncia e per lo stesso motivo anche per don Giulio Facibeni, anche se nel suo caso si ipotizzano altre destinazioni. Capisco quindi lo sfogo di questo nostro lettore, che specifica in calce alla lettera di essere «figlio di un disoccupato della Pignone del 1953». Ma seppur dolorosa, la decisione era davvero necessaria.
Claudio Turrini