Lettere in redazione

Don Santoro e la marcia per l’accoglienza

L’iniziativa annunciata da don Santoro, la marcia «per l’accoglienza senza se e senza ma, contro le discriminazioni e la violenza, dalla parte degli ultimi anziché di chi respinge in nome di appartenenza, sicurezza e legalità», e il dibattito ad essa collegato meritano una riflessione.

Don Santoro ha il sacrosanto diritto-dovere di dire e proporre tutto ciò che ritiene giusto ed opportuno. Noi siamo quelli che rivendicano il diritto-dovere di espressione e dunque di «interferenza» nella vita pubblica e politica delle confessioni religiose, quella cattolica in primis. E di tutti i punti di vista di chi rappresenta la Chiesa. Ma da cattolico prima che da politico voglio dire una cosa a don Santoro. La disponibilità, l’accoglienza e la comprensione verso il prossimo come principio guida, non solo cattolico ma anche politico, non può essere considerata avulsa dal principio dell’interesse generale, a cui deve guardare la politica.

Il caso della singola persona non può essere slegato dalla fattispecie generale dello stesso. L’idea di configurare un reato perché si oltrepassa un confine, in cerca di condizioni di vita dignitose non è cosa che fa sentire felici e contenti. Non me almeno. Ma la trovo necessaria. Perché consentire alle persone di entrare in Italia senza poi potere offrire loro alcuna possibilità reale di vivere una vita dignitosa non significa né solidarietà, né accoglienza. Significa irresponsabilità nei loro confronti prima di tutto. Oggi, come dicono i dati, un’alta percentuale di clandestinità si lega strettamente a coloro che compiono reati. Sono quelli che vengono qui, non trovano un lavoro, talvolta non lo cercano neppure, e si ritrovano a guadagnare in maniera illegale, ai danni dei cittadini. Ci sono anche molti di loro che non delinquono. Ed è a questi che la politica deve guardare per consentire ingressi regolati legati alla garanzia di un lavoro che significa un alloggio ed una prima vera possibilità di integrazione oltre che di accoglienza. Ma non possiamo continuare a lasciare le cose così. E chi si assume la responsabilità di tentare di trovare una soluzione non è un insensibile che se ne frega delle sofferenze e dei diritti delle persone. È uno che, specie se crede, si ritrova quotidianamente a mediare punti di vista e situazioni spesso contrapposte, ed a cercare il minore dei mali. Si può marciare per l’accoglienza come si dovrebbe marciare per tutti quei casi di persone irregolari con provvedimento di espulsione che invece sono rimaste a piede libero ed hanno ricambiato con gli omicidi e con gli stupri. Ma non credo onestamente che agitare solo alcuni pezzi di una scacchiera serva a qualcosa. Se non ad illudersi di avere ragione.

Jacopo Cellai consigliere comunale di An – Firenze

Pubblichiamo volentieri questa lettera perché mostra come si possano usare toni pacati e rispettosi, anche quando si dissente da determinate iniziative. Premetto che sono d’accordo sul punto di partenza: quando si parla di politiche di accoglienza verso gli immigrati, bisogna farlo tenendo presente l’interesse generale. Questo è appunto il compito della politica. Chi viene nel nostro paese, fuggendo da situazioni di miseria o di fame, deve integrarsi il più possibile, vivendo in condizioni dignitose, lavorando regolarmente e rispettando le nostre leggi.

Proprio perché il fine è questo, è evidente che non possiamo accogliere chiunque, né farlo in modo insensato. È necessario che la politica governi i flussi e i processi di integrazione. E qui sorgono problemi talmente complessi che nessuno, né a destra né a sinistra, può pensare di avere la soluzione totale e definitiva. Noi abbiamo bisogno della manodopera degli immigrati, e quindi siamo in grado di assorbirne un certo numero, inserendoli in percorsi virtuosi. Le statistiche ci dicono che chi è qua regolarmente, con lavoro, casa e famiglia, delinque né più né meno degli italiani. Chi entra invece in percorsi di clandestinità e marginalità è più propenso a commettere reati. Era così per i tanti italiani emigrati negli Usa ed è così per chi oggi viene in Italia. La società naturalmente ha il diritto di reprimere i reati commessi e il dovere di prevenirli il più possibile. Ma senza mai dimenticare che comunque gli immigrati sono esseri umani, tali e quali a noi per dignità.

E qui comincia il mio dissenso dalla sua posizione. In questi ultimi tempi si sono sentiti slogan e viste iniziative che nulla a che fare hanno con il giusto desiderio di sicurezza dei cittadini (spesso sottovalutato – è vero – dalle forze di sinistra). Per questo non si può mettere sullo stesso piano chi manifesta contro ogni forma di discriminazione e chi lo fa per chiedere di cacciare tutti gli immigrati irregolari. Anche perché c’è dietro molta ipocrisia. Sono quasi sempre italiani quelli che affittano a prezzi esorbitanti un posto letto agli immigrati, o li assumono al nero in un cantiere o in un terreno agricolo. E la stessa legge Bossi-Fini (che il centrosinistra non è stato capace di cambiare) prevede un meccanismo di concessione del permesso di soggiorno difficilmente attuabile. Quanto poi all’introduzione del reato di clandestinità, ritengo che sia un modo un po’ propagandistico di affrontare il problema, rendendo addirittura più lente e difficili le espulsioni. In dieci anni nel canale di Sicilia sono affogati 10 mila immigrati. Lei pensa che finire davanti ad un giudice blocchi le «carrette» del mare?

Claudio Turrini