Lettere in redazione
Ricordiamo l’impegno dei cattolici antifascisti
Mi colpisce e addolora la discussione che si è riaperta, prima e dopo le recenti celebrazioni dell’8 settembre, sul fascismo «malvagio solo dopo le leggi razziali» e sulla rivalutazione del «patriottismo» dei «ragazzi di Salò» caduti per la Rsi. Sarà perché sono nato a pochi chilometri dalla parrocchia di Bozzolo, testimone dell’esempio e dell’insegnamento di don Primo Mazzolari, o forse perché provengo da una famiglia che ha vissuto la violenza fascista contro i cattolici e l’impegno sociale e politico pluridecennale nella Democrazia Cristiana, ma, come cattolico e come italiano, non posso tacere.
In occasione del 25 aprile del 2005, a sessant’anni dalla Liberazione, «Avvenire» ma non solo il quotidiano della Cei dedicò una lunga e interessante serie di articoli al ruolo dei cattolici nell’antifascismo e nella Resistenza. Tuttavia credo che anche oggi, soprattutto oggi, i cattolici italiani debbano riportare alla memoria le migliaia e migliaia di partigiani cattolici, le centinaia di caduti, torturati, fucilati, deportati nei campi di stermino. Dobbiamo parlare, specie ai più giovani, delle «Fiamme verdi», della «Osoppo», del «Manifesto della resistenza cattolica», steso nella primavera del 1944 a Brescia da padre Luigi Rinaldini con la collaborazione di don Giacomo Vender e don Giuseppe Almici. Non possiamo tacere l’esempio dei «ribelli per amore», di uomini come Ermanno Gorrieri, don Andrea Ghetti, don Aurelio Giussani, don Luigi Zoppetti, don Domenico Orlandini, di tutti i sacerdoti, i religiosi e i laici che hanno rischiato e spesso sacrificato la vita per liberare l’Italia dalla dittatura e dall’occupazione. Dovremmo rispolverare la «Preghiera del ribelle» di Teresio Olivelli e Carlo Bianchi.
Dobbiamo fare memoria dei nostri martiri, dei religiosi caduti per mano dei nazifascisti del 1944-1945: don Giuseppe Morosini ucciso alle Fosse Ardeatine, don Giuseppe Torelli, parroco Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria di Bucine (Arezzo), don Lazzeri e altri due sacerdoti di Civitella della Chiana (Arezzo), i parroci di Castelnuovo e Massa dei Sabbioni (Arezzo), don Ferrante Bagiardi e don Ernesto Morini, il parroco di Crespino sul Lamone (Firenze), don Eugenio Grigoletti, parroco di Adelano, e don Angelo Quiligotti, docente del Seminario Vescovile di Massa, il parroco di Sant’Anna di Stazzema, don Innocenzo Lazzeri, quello di Bargecchia, don Giuseppe del Fiorentino, i monaci della Certosa dello Spirito Santo di Farneta, e don Ubaldo Marchioni, trucidato dalle SS insieme ai fedeli mentre recitano il rosario nella chiesa di Marzabotto, e ancora di tanti, tanti altri che ora non ricordo.
Ricordiamo anche i martiri per mano degli assassini stalinisti nel Dopoguerra. Ricordiamo la «strage dei preti» nell’Emilia Romagna tra il ’45 e il ’47. Ricordiamo Rolando Rivi, seminarista ucciso a 14 anni, don Tiso Galletti, parroco di una frazione di Imola, ricordiamo l’omicidio di don Umberto Pessina, parroco di San Martino di Correggio ucciso il 18 giugno 1946. Andrebbe ripubblicato il «Martirologio del clero italiano 1940-1946» che, dopo l’edizione del 1963 a cura dell’Azione Cattolica, giace dimenticato in qualche biblioteca storica o religiosa.
Però in queste ore buie, quando si cerca di confondere la pietà che accomuna i morti di tutte le parti con una sorta d’assoluzione politica postuma delle colpe dei massacratori e dei sostenitori della dittatura e del razzismo, quando si tenta di falsificare la storia, tanto i nostri pastori quanto la stampa cattolica non devono smettere di fare memoria dei nostri martiri e delle ragioni della lotta contro il nazismo e il fascismo.
Non posso che sottroscrivere l’appello del nostro lettore. Ormai sono passati 65 anni da quei fatti che lacerarono l’Italia. È giusto superare odio e risentimento. Ma non si può cancellare la storia. Come ha detto il nostro presidente della Repubblica, proprio l’8 settembre scorso, in occasione del 65° della Difesa di Roma, la Resistenza ha avuto un duplice carattere: «Quello della ribellione, della volontà di riscatto, della speranza di libertà e di giustizia che condussero tanti giovani a combattere nelle formazioni partigiane e, non pochi, a sacrificare la loro vita. E quello del senso del dovere, della fedeltà e della dignità che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei seicentomila deportati nei campi tedeschi, rifiutando l’adesione alla Repubblica di Salò». Certo, tra quanti aderirono alla Rsi c’erano anche giovani che lo fecero in buona fede. Ma sbagliarono. E non posso perciò condividere le parole del ministro della difesa Ignazio La Russa, che parlando pochi minuti prima di Napolitano aveva detto: «Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo della Rsi soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d’Italia».