Lettere in redazione
I cattolici e la guerra in Libia
Caro direttore, il coinvolgimento sempre più massiccio dell’Italia nella guerra in Libia ma, purtroppo, in questi ultimi due decenni anche nelle guerre in tante parti del mondo (dall’Iraq all’Afganistan ecc.) non ci lascia indifferenti e silenziosi. Non c’è nessuna ragione che possa giustificare tali infelici decisioni: né di ordine «alto» (morale, ideologico, politico) e nemmeno di ordine pratico, se si eccettuano naturalmente i profitti di guerra di pochi (industrie e commerci di armi con annessi e connessi).
Si tratta in primo luogo dell’uccisione di tante vite umane, c’è poi il dispendio di enormi capitali pubblici, frutto delle onerosissime tasse, dirette e indirette, che gravano su tutti noi cittadini-sudditi, nel contesto di una situazione economico-finanziaria interna ed internazionale che ci viene ogni giorno descritta come grave e sempre bisognosa di nuove «strizzate» fiscali, ovviamente sulla pelle della gente comune, già posta in gravi difficoltà dai problemi del lavoro, con un’alta disoccupazione, sottoccupazione, precarietà ecc., che colpiscono con particolare durezza la vita quotidiana ed il futuro di troppe famiglie e dei giovani in particolare.
La scorsa settimana un ministro di questo governo ha quantificato in un miliardo e mezzo di Euro all’anno il costo delle cosiddette «missioni» militari italiane all’estero. E ciò prima che l’Italia, scioccamente, si facesse coinvolgere in questa guerra nata contro di noi, preparata a tavolino da potenze europee con le quali saremmo formalmente parte di un’unica Comunità! Il trionfo dell’ipocrisia europea e della stoltezza italiana. Un fatto è certo, quest’ultima guerra che, come tutte, già conosce il suo tristissimo corollario di morti e di rovine, un risultato macroscopico lo ha già ottenuto: la morte dell’Europa, di questa Europa almeno.
Come cristiani e come persone pensanti ed amanti della Verità e della pace non possiamo che dichiarare pubblicamente il nostro no: no alla guerra «avventura senza ritorno», secondo la definizione che Giovanni Paolo II gridò al profilarsi della prima guerra in Iraq. Ripensando con gratitudine al Magistero della Chiesa per la pace e all’impegno personale, civile e politico, all’offerta della vita per essa da parte di Giorgio La Pira e di Fioretta Mazzei, con loro vogliamo ripetere quella frase che La Pira volle scritta e più volte ripetuta sulle storiche pagine de La Badia, il foglio della Messa di S. Procolo: «Non bombe ma pane!».
In nome della dignità umana, ripensate la scelta dei bombardamenti in Libia. Fermatevi! Ascoltate le parole di Benedetto XVI: Cessate il fuoco, usate altri strumenti più saggi ed efficaci a disposizione della comunità internazionale. Ascoltate il vescovo di Tripoli: Rinsavite!
Nessuna bomba è «intelligente». Le persone non sono «effetti collaterali». Chi tra voi ha celebrato la beatificazione di Giovanni Paolo II, ricordi il suo magistero promotore di un nuovo diritto internazionale basato sul valore supremo della pace lontano da ogni atto di guerra sempre «avventura senza ritorno» e «spirale di lutto e di violenze». Le vite umane sono più importanti di ogni calcolo politico!
Gentilissimo direttore, le chiedo la cortesia di dare spazio ad una mia osservazione, in ordine alla quale gradirei un suo parere. Domenica 1° maggio, in una trasmissione del canale televisivo «La7», ho sentito un’affermazione dell’onorevole Rosy Bindi che mi ha lasciato, a dir poco, perplesso. L’onorevole alla richiesta di esprimere una sua opinione sulla guerra, in riferimento alla Libia, ha lasciato intendere la sua contrarietà, ma ha detto che in questo caso si allineava alle decisioni del suo partito che agiva contro un dittatore e per salvare l’onore del nostro Paese. Non ricordo le parole precise, ma mi sembra che il concetto fosse questo.
Sbaglio se mi scandalizza tale presa di posizione? L’articolo 11 della Costituzione non ripudia più la guerra? La guerra non è più un’avventura senza ritorno? Il «suo» partito per il quale anch’io simpatizzo (per la verità sempre meno….) perché invece di tollerare il ricorso alle armi (che ora sembrano addirittura intelligenti) non è sceso in piazza come ha fatto per eventi di minor importanza al confronto della guerra? Si sono cominciati tanti conflitti per giusta difesa, e alla fine i morti, le distruzioni, le miserie non si contavano più. Altro che amore del Paese!
Noi siamo entrati nella guerra civile libica schierandoci da una parte, e combattiamo contro l’altra parte; abbiamo già ucciso militari e civili. Perché l’abbiamo fatto? Perché pensiamo che i ribelli siano la parte migliore della Libia? Potrebbero anche essere dei nuovi dittatori. E perché dovrebbero essere dittatori migliori di Gheddafi? Potrebbero infine essere dei «democratici»: ma abbiamo già visto in Iraq e in Afghanistan che gli islamici democratici non sono in grado di controllare nulla, né le etnie, né le tribù, né il territorio.
Infine, la percezione del nemico. Una guerra è tale se vi è l’opposizione di uno Stato ad un altro Stato, di un popolo contro un altro popolo. Questo non era, almeno in partenza, il caso libico: l’opposizione viene fatta a un dittatore che opprime una parte consistente del suo popolo. Ma anche questa può diventare, e forse lo è diventata se non altro per la durata, una guerra vera e propria con il rischio persino di un intervento diretto.
Altrettanto certo è che alcune strategie (se così le possiamo chiamare) passano alte sopra le nostre teste e ci è difficile capire come realmente stiano le cose. Basti pensare che fino a poco tempo fa a Gheddafi baciavamo le mani (e non solo l’attuale governo), mentre ora scopriamo che si tratta di un dittatore sanguinario. E non è neppure l’unico: situazioni non molto diverse le riscontriamo nei dintorni in Siria, nello Yemen, nel Barhein…. Ma anche su queste la distrazione dell’Europa è davvero grande, tanto che Giovanna Carocci, nella sua lettera, parla di ipocrisia e addirittura di morte dell’Europa. Negli ultimi giorni si è aggiunta anche la vicenda di Bin Laden di cui adesso scopriamo che da tempo viveva in Pakistan senza particolari accorgimenti e che quindi gli Stati Uniti sapevano per certo dove si «nascondeva». Vallo a spiegare ora ai militari morti in Afghanistan (e alle loro famiglie) che erano lì con l’obiettivo primario della caccia a Bin Laden.
Andrea Fagioli