Lettere in redazione
Troppo silenzio sui quattro referendum
Meno male che era intervenuto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per chiedere al servizio pubblico di garantire la «necessaria informazione sulle modalità di svolgimento della consultazione referendaria». In realtà non mi sembra che sia cambiato proprio nulla. Anche in questi giorni tutti tg, sia della Rai che delle concorrenti, non si parla altro che dei ballottaggi (e in particolare di quello di Milano).
>Non bastano degli spot «tecnici» in cui si ricorda che il 12 e 13 giugno si vota. Bisogna far capire la posta in gioco, spiegare il senso di questi referendum.
Non è che dopo averci scippato con il «porcellum» la possibilità di scegliere (almeno in piccola parte) gli eletti al Parlamento (anche se qui in Toscana avevano già fatto la stessa cosa per il consiglio regionale), adesso ci tolgono pure la possibilità di pronunciarci su determinate leggi?
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I referendum abrogativi, che pur essendo previsti dall’art. 75 della nostra Costituzione, sono stati possibili solo dopo la legge 352 del 1970, sono uno strumento di democrazia diretta che purtroppo ha perso molto del suo appeal. Nel maggio del 1974, al primo referendum, che riguardò la legge sul divorzio, si recarono alle urne quasi il 90% degli italiani.
Ancora dieci anni dopo, nel giugno del 1985, l’affluenza al referendum sulla scala mobile fu del 77,9%. Da allora è stata una continua discesa, fino al giugno 1997, quando a votare su 7 quesiti, anche di un certo spessore (come l’obiezione di coscienza al militare o la caccia) ci andò soltanto un italiano su 3. In alcuni casi (come già era accaduto nel ’90 per caccia e pesticidi) il mancato raggiungimento del quorum è stato causato dall’aperta campagna per l’astensione propagandata da alcune forze politiche o gruppi sociali. Il che di per sé è anche lecito, dal momento che si può ritenere «impropria» la consultazione. In altri casi, invece, ha inciso solo la disaffezione dei cittadini verso la politica e verso questo strumento in particolare. E in questo caso non c’è da rallegrarsene, perché, comunque la si pensi, è un impoverimento per la democrazia. E qui il «mea culpa» dovrebbero farlo tutti. Il legislatore, perché ne ha «traditi» alcuni, non dando seguito a quanto deciso dal voto, come nel caso del finanziamento ai partiti (addirittura incrementato) o dell’abolizione di alcuni ministeri (turismo e agricoltura).
Ma hanno sbagliato anche alcuni movimenti o partiti, inflazionando lo strumento, o rendendolo poco chiaro al cittadino. Perché se è facile spiegare cosa comporti abolire un’intera legge (come quella sul divorzio) molto più difficile è far capire cosa accadrebbe con operazioni di alta «chirurgia legislativa», cancellando qua e là dei pezzettini di norme. Detto questo, trovo però inaccettabile come scrive il nostro lettore che non si faccia una corretta informazione sui temi referendari o che si cerchi di aggirarli e depotenziarli con norme pasticciate, approvate all’ultimo tuffo. Non sapere ancora, a 20 giorni dal voto, se si voterà per 3 o 4 quesiti non è serio. Da parte nostra proporremo sul prossimo numero un approfondimento sui referendum, cercando di fare emergere le ragioni del sì e quelle del no ai quattro (o tre) quuesiti sui cui voteremo il 12 e 13 giugno.
Claudio Turrini