Lettere in redazione
Rifiuti, assurdo pensare ai termovalorizzatori
Leggendo l’articolo sull’emergenza rifiuti in Toscana pubblicato sul vostro numero del 16 ottobre sono rimasto sorpreso di come questo argomento venga ancora affrontato in modo molto superficiale con soluzioni datate di 20 anni. Il Segretario regionale Cisl parte dal presupposto che l’unico modo di smaltire i rifiuti sia bruciarli nei termovalorizzatori e che questa pratica sia economicamente conveniente per i cittadini. Niente di più errato! Le esperienze di molte provincie e Comuni italiani stanno confermando che utilizzando la raccolta porta a porta si possono attivare buone pratiche di riciclo e recupero della materia senza ricorrere all’incenerimento, che oltre ad avere un grosso impatto inquinante è anche diventato molto costoso. La provincia di Lucca ha chiuso i suoi 2 impianti di incenerimento ed ha iniziato un progetto alternativo per l’azzeramento dei rifiuti da smaltire nel 2020. Per contro queste pratiche alternative permettono di effettuare forti risparmi di costo e quindi in molte realtà locali hanno portato ad una riduzione o almeno alla stabilizzazione delle tariffe.
Il Presidente di Quadrifoglio ha dichiarato questa estate che bruciare i rifiuti in un moderno termovalorizzatore costa come smaltire i rifiuti in discarica; allora per quale ragione si insiste nel riproporre questi progetti ormai datati, quando ad esempio in Germania con le attuali percentuali di differenziazione non sanno più che cosa bruciare nei loro impianti? L’enorme costo di questi impianti dovremo pagarlo noi cittadini con le nostre bollette che inevitabilmente cresceranno nel tempo in modo esponenziale. A Montale (PT) i cittadini ne sanno qualcosa. Oltre agli effetti catastrofici ormai evidenti sulla salute dei cittadini dovuti alle emissioni altamente inquinanti dell’impianto d’incenerimento, devono anche sopportare incrementi annuali a due cifre della TIA per gli alti costi sostenuti per l’ampliamento e l’ammodernamento dell’impianto. È vero che c’è bisogno di intervenire, ma a valle della raccolta differenziata che per legge si dovrà attestare ad almeno il 65%, sono sufficienti alcuni impianti di vagliatura e riciclo a freddo ed alcuni impianti di compostaggio per ridurre drasticamente il conferimento in discarica. Tali impianti a basso impatto ambientale hanno iter burocratici molto veloci e sono a basso costo, per cui potrebbero essere realizzati velocemente al contrario dei termovalorizzatori, che hanno bisogno di una serie di autorizzazioni ed hanno dei costi che si misurano in centinaia di milioni. Forse questi tecnici improvvisati progettano di bruciare i rifiuti che noi con tanta pazienza differenziamo? Questo sarebbe veramente inaccettabile.
La Direttiva 2008/98 dell’Ue ribadisce che deve esserci una «gerarchia» nel trattamento dei rifiuti: si parte dalla «prevenzione», per passare alla «preparazione per il riutilizzo», poi al «riciclaggio», quindi al «recupero di energia» per finire con lo «smaltimento». Questo significa che per quanto ci si debba sforzare di produrre sempre meno rifiuti e di riciclarne il più possibile, ragionevolmente ne rimane una quota che deve essere smaltita in discarica o meglio ancora incenerita. Rinunciare a priori a questi ultimi anelli della catena rende fragile l’intero sistema di trattamento dei rifiuti. Quanto alla presunta «pericolosità» degli impianti di termodistruzione esiste una letteratura sterminata e nessuna conclusione mi sembra ancora definitiva. Quelli di più recente costruzione inquinano certamente meno di una strada trafficata. In Europa ce ne sono più di 350, distribuiti in 18 paesi, tra cui alcuni notoriamente molto sensibili all’ambiente e alla tutela della salute dei cittadini, come la Svezia o la Danimarca. E impianti di questo genere sono da tempo inseriti anche in contesti urbani, come ad esempio a Vienna, Parigi, Londra, Copenaghen, Montecarlo, Amburgo, Amsterdam. Anche in Italia, a Brescia, ai margini del centro abitato, ce n’è uno tra i più grandi in Europa. Poi ovviamente si può discutere su quello che in Italia finisce negli inceneritori e sul rischio che la presenza di consistenti incentivi (i cosiddetti «CIP6») possa indurre a incenerire anche oltre il necessario.
Claudio Turrini