Opinioni & Commenti
Contro l’assuefazione alla violenza serve un nuovo balzo di civiltà
È un processo individuale e di massa che avviene anche con l’informazione. Non a caso Papa Francesco ha parlato di “globalizzazione dell’indifferenza”. Da decenni immagini rapite in circostanze molto particolari da persone occasionalmente presenti o da professionisti, segnano fenomeni, processi sociali e politici, scoperchiano e condividono ciò che sarebbe rimasto solo locale o occultato. Sono immagini simbolo che si scolpiscono nella memoria collettiva che negli ultimi tempi sono arrivate sui nostri schermi, televisivi o smartphone. Il corpicino di un bambino morto su un bagnasciuga, gli sguardi impietriti di angoscia di donne incinte sbarcate sulle nostre coste, fili spinati e muri a segnare confine ridicoli, uomini messi a fuoco dentro gabbie esposte al pubblico, parti del pianeta che si sbriciolano avvelenate, sommate alle altre decine e centinaia di immagini, ci facevano domandare se non stessimo diventando tutti cinici, se l’inizio del terzo millennio potesse essere descrito da questa cifra.
Poi è arrivata l’immagine degli infiniti minuti di quel ginocchio del poliziotto Derek Chavin di Minneapolis che lentamente soffocava George Floyd: la figura che avrebbe dovuto tutelare i deboli contro l’ingiustizia diventava il simbolo della violenza cieca dell’odio razziale. E quell’immagine, imprevedibilmente, ha mosso il mondo. In poche ore un intero continente e poi tutto il mondo sono stati percorsi da un brivido che ha segnato uno stop. Quell’immagine ha varcato una soglia che felicemente scopriamo essere presente anche negli uomini e nelle donne di questo millennio: la soglia dell’indignazione. Il sentire indignato è come una riscossa dell’umano quando vengono ferite le radici più profonde dell’esistenza ed è un sentire rischioso perché affiora con un convincimento intimo per cui tacere equivarrebbe a morire: smarrire l’umano è come non aver più nulla da perdere. Il sentire indignato è un rischio perché, come emerge, è immediatamente a un bivio: agire in modo da non produrre nuova ingiustizia oppure lasciarsi guidare dalla rabbia che si trasforma in ulteriore violenza.
Ponendomi idealmente al Lincoln Memorial di Washington, nel luogo in cui Martin Luther King, il 28 agosto 1963, pronunciò il discorso che ricordiamo come «I have a dream» («Io ho un sogno»), mi pare di scorgere un’immagine che non è sbiadita, ma è viva, in mezzo a inimmaginabili novità e contraddizioni. La nuova generazione riprende il testimone e attraersando la faglia epocale, il conflitto del nostro tempo che ha fratturato ogni relazione, ogni antico equilibrio, non rinuncia al proprio compito di speranza e di giustizia, riprende il cammino per un nuovo balzo di civiltà.