Opinioni & Commenti
Altro che diritti individuali, qui ci vuole una dichiarazione universale dei doveri dell’uomo
Se ci pensiamo bene, viviamo in un’epoca di sbornia dei diritti, tanto da spingere un attento osservatore della realtà socio politica del nostro Paese, Alessandro Barbano (autore del saggio Troppi diritti), ad affermare che «in Italia il primato dei diritti ha assunto da almeno quattro decenni le forme di una vera e propria ideologia politica: il dirittismo».
Non ci soffermeremo sulla sua analisi, a tratti spietata, della crisi della nostra democrazia e della politica che la dovrebbe animare. Piuttosto, ci interessa capire perché la dimensione del dovere sia in fuga dal dibattito pubblico, e non solo da quello. Perché non ci sia più un politico, un uomo di cultura, educatore, genitore o religioso capace di evocare con coraggio i doveri. Sembra quasi che siamo stati tutti anestetizzati da un pensiero dominante, trasversale e totalizzante: ognuno di noi è solo detentore di diritti da esigere. E al tempo stesso assertore e creatore di nuovi diritti, talvolta persino impensabili sino a ieri. In un’escalation che sembra irrefrenabile. Basti pensare alla questione delicatissima del rapporto della tecnoscienza con la dimensione riproduttiva umana e più in generale alle vicende legate al gender («cultura di genere»). Può apparire un caso estremo, ma non lo è. Infatti nei giorni scorsi il sindaco di New York, Bill De Blasio, ha concesso ai genitori la possibilità di scegliere la dizione maschio, femmina o x nel certificato di nascita. Con la voce x si indica un altro genere.
Abbiamo scelto questo esempio che può apparire estremo, solo per segnalare come la fabbrica dei diritti non chiuda mai i battenti, mentre quella dei doveri sembra che tenga le sue porte sempre sbarrate. Eppure, qualche domanda scomoda farebbe bene a tutti. Per restare nel campo della riproduzione umana, o se volete della demografia, è davvero un diritto avere un figlio a tutti i costi? E all’opposto, siamo sicuri che non sia un dovere mettere al mondo un figlio al tempo giusto, soprattutto dinanzi a una crisi demografica che, come nel caso italiano, può mettere a rischio nell’arco di solo qualche decennio la nostra stabilità sociale e la nostra identità nazionale?
Ecco, la differenza di fondo: la logica dei diritti è troppo spesso priva di dubbi, non fosse altro per il fatto che coincide sempre con i nostri interessi. Quella dei doveri, invece è sempre lastricata di se e di ma. Inoltre la risposta ai doveri è scomoda e non coincide armoniosamente con i nostri interessi, anzi spesso li contraddice, indicandoci ostacoli da superare e sacrifici che volentieri ci eviteremmo. Dunque, la partita fra diritti e doveri sembra irrimediabilmente persa, a scapito dei secondi, soprattutto in un mondo che sembra aver accantonato le domande di senso per inseguire l’esaltazione individuale.
Ecco, forse la chiave sta proprio nel passaggio dall’io al noi. Da me come singolo a me come figlio/figlia, marito/moglie, padre/madre, cittadino/cittadina. Eppure, ci sono momenti della vita in cui il noi prende il posto prepotentemente dell’io. Lo abbiamo provato di recente nelle ore terribili del crollo del ponte Morandi a Genova. Quel dolore era il nostro dolore, quella disperazione era la nostra disperazione, quella rabbia era la nostra rabbia, quella voglia di riprendere a vivere era ed è la nostra voglia di riprendere a vivere.
Ecco dove nasce la sorgente del dovere: in quel sentirci un noi. In quel condividere tutto. In quel pensare che dalla sofferenza possiamo e dobbiamo uscirne insieme. Che la rinascita è sempre un noi, non fosse altro che per la nostra dimensione relazionale. Non è un caso infatti, che la rivelazione cristiana sia un dono per l’umanità. Di un Dio che si fa carne, muore e rinasce per l’umanità, non per se stesso. Assolvendo a un dovere supremo. Per noi. Forse faremmo bene a non dimenticarlo mai. E soprattutto a ricordarcelo ogni qual volta la vita ci pone dinanzi a scelte piccole e grandi. Mai banali. Dove c’è in gioco qualcosa in più del nostro piccolo interesse. E dove, invece, ogni nostro gesto ha un senso per gli altri e trasmette la sensazione che abbiamo fatto sino in fondo il nostro dovere.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata il 10 dicembre 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite), da settant’anni è indiscutibilmente un bene per l’umanità. Forse la nostra generazione non vedrà mai una Dichiarazione universale dei doveri dell’uomo, ma di sicuro ogni santo giorno possiamo contribuire a scriverne un frammento.