Opinioni & Commenti
Cosa può insegnarci il crollo di un ponte
Non è la prima volta che ci troviamo ad affrontare e cercare di superare tragici eventi umani, conseguenti alla finitezza del saper fare umano, altre volte per eventi sismici, altre ancora per imprevedibili bizzarrie climatologiche. Questa volta però, il caso è più complesso. Ha maggiori e diversificate motivazioni e, proprio per questo, non possiamo esimerci da una riflessione più generale.
Per il viadotto della Polcevera la magistratura, con i suoi consulenti tecnici sta accertando gli aspetti penali. Una seconda commissione, che fa capo al ministero delle infrastrutture e dei trasporti («lavori pubblici»), sta già vivendo i suoi imbarazzanti traumi sui profili dei suoi componenti. Il Ponte di Genova, progettato e realizzato da Morandi fra il 1963 e il ’67 era un fiore all’occhiello della grande ingegneria italiana, in quel decennio ambìta nel mondo.
Con Pier Luigi Nervi, Fabrizio De Miranda e Sergio Musmeci, Riccardo Morandi (1902-1989) è stato fra i più noti strutturisti e progettisti di ponti del mondo. Ingegnere italiano, aveva avuto la laurea honoris causa dall’università di Monaco di Baviera e la Gold Medal Structural Engineers (il «Nobel» degl’ingegneri strutturisti). Il professor Morandi era stato determinante nel salvataggio Unesco dei Templi di Abu Simbel in Egitto, aveva realizzato il grande ponte-viadotto di Maracaibo in Venezuela (allora, mi pare, il più grande in assoluto), tante altre bellissime opere, introducendo e diffondendo la tecnica del calcestruzzo «precompresso», quella speciale tecnica intesa a porre in coazione elastica cemento e ferro, allo scopo di migliorarne le caratteristiche di resistenza alle azioni dei carichi e delle sollecitazioni esterne.
Morandi aveva insegnato «Ponti e grandi strutture» nella Facoltà di Architettura di Firenze fino a metà degli anni Sessanta e non pochi erano gli allievi (ingegneri e architetti) che frequentavano quel corso, venendo anche da lontano e da altri atenei. Ora è il momento degli accertamenti tecnico-legali per individuare responsabilità e per dare una risposta al dolore dei familiari delle vittime.
Si dovranno indagare molti aspetti tecnici, dalla bontà degli stralli (i tiranti) alle travi, dalle fondazioni agl’impalcati; ma soprattutto sul rispetto dei protocolli della manutenzione e sui monitoraggi effettuati (od omessi) nell’ultimo decennio, considerato che proprio lo stesso Morandi aveva indicato la necessità di tenere sotto controllo le deformazioni in campo «plastico-viscoso» e il comportamento «a fatica» (piccole sollecitazioni ma infinitamente ripetute nel tempo, com’è e come era, per l’appunto in quel viadotto genovese). Lo scriveva nelle sue «dispense» universitarie che alcuni di noi ancora conservano e lo raccomandava ancora qualche anno prima di andarsene (1989).
C’è un terzo – doveroso – gruppo di lavoro che dovrà essere costituito, possibilmente a livello internazionale, per accertare un aspetto di fondo che interessa tutte le grandi opere in cemento armato in esercizio nel mondo: un’équipe specialistica ove siano presenti anche scienziati chimico-fisici che indaghino sull’«invecchiamento» del cemento armato; perché in questo, purtroppo, siamo quasi all’anno zero, ovunque.
Questi accertamenti e approfondimenti scientifici diventano ora impellenti anche per evitare, come sta già accadendo, che la tragedia si trasformi in commedia, diffondendo un pericoloso senso di pànico verso tutte le costruzioni del dopoguerra in Italia e per il mondo. Così che, oltre ai tanti ponti e viadotti (si pensi al tratto appenninico dell’autostrada A1) si tireranno in ballo i grandi edifici con struttura in cemento armato come la Torre Velasca e il Grattacielo Pirelli a Milano…
Tutto ciò, forse, potrà portare a una diversa filosofia dell’industria delle costruzioni, ma il cemento armato con la sua infinita libertà immaginativa e progettuale resterà una tappa positiva della meravigliosa intelligenza umana; né possiamo dimenticare che numerosi sono i «monumenti» in cemento armato, notificati dal ministero dei Beni culturali. Così che, fin dove è possibile, abbiamo il dovere di prevederne il restauro, come per le opere d’arte dei secoli precedenti. Ma soprattutto, dobbiamo allontanare l’atteggiamento inutilmente lamentoso e stupidamente conflittuale che ha tristemente caratterizzato il mondo politico, sostituendolo – come talvolta il nostro Paese ha saputo dimostrare – con un altro, positivo e fattivo.
Questa è l’ultima scommessa che ci aspetta nel prossimo decennio. Partendo da una necessaria ricomposizione civile del confronto politico, evitando l’indegna canèa di protagonismo politico e di gara a deresponsabilizzarsi dalla serie storica delle relazioni e dagli accertamenti (realizzati o meno) degli ultimi anni.