Opinioni & Commenti
Non lasciamo che in rete siano gli altri a decidere per noi
Dall’altra parte il dibattito sta avendo anche l’effetto di generare rumore e confondere le acque. La semplificazione mediatica oscilla tra il sensazionalismo che evoca paure ancestrali come quella del controllo sociale e del dominio della macchina sull’uomo, alle strategie di chi ha interessi a dare tutta la colpa a Facebook, per trarne vantaggio: come ha fatto notare Pier Luca Santoro su Datamediahub, i primi a servirsi di sistemi per raccogliere dati degli utenti sono proprio i media che stanno calcando la mano sul caso. L’effetto paradossale è che tutto ciò genera negli utenti un vago istinto di difesa a spegnere e cancellarsi dai social, alimentato anche dalla retorica apocalittica di alcuni; ma che poi di fatto non ha alcun seguito, sia perché impossibile – le nostre vite sono ormai irrimediabilmente interconnesse – sia perché sarebbe del tutto inutile: i dati su di noi verranno comunque raccolti in altri modi. Risultato: rimaniamo spaventati e immobili, ipersensibilizzati ma fondamentalmente passivi.
Come uscirne? La strada è faticosa, ma c’è. E parte anzitutto dal vedere il problema nella sua complessità, attraverso i diversi livelli su cui si può e si deve affrontare, che sono essenzialmente tre.
Il primo è politico e addirittura sovranazionale (perché si tratta di un problema internazionale) ed è quello della regolamentazione: abbiamo bisogno di sempre migliori tutele sui nostri dati. Questo è il livello in cui ciascuno di noi, da solo, può fare poco. È il livello di cui dovrebbero occuparsi i giornalisti (invece di perdere tempo a solleticare paure) per spingere gli attori pubblici a garantire trasparenza e fair play nel mercato e nella vita politica e sociale che con lo scambio di dati hanno sempre più a che fare.
Il secondo livello è quello dell’autotutela. Qui ciascuno di noi può fare diverse cose, a partire dall’essere più accorto sul tipo di autorizzazioni che dà in merito ai propri dati sui social, nelle app e in generale online (ma anche offline).
Infine c’è un terzo livello, il più importante, che è quello della cura attiva e costruttiva della propria presenza online. In questo livello il vero protagonista è ognuno di noi nel suo modo di muoversi in rete, non solo per difendersi dai rischi, ma soprattutto per cogliere le opportunità che il web dà per stabilire connessioni, trovare informazioni, per poter dire la propria e partecipare efficacemente alla vita pubblica. È un livello di cittadinanza digitale attiva che riconosce nello scambio dei dati non solo pericoli, ma le potenzialità per migliorare le proprie esperienze.
Che il problema non sia solo Facebook e che non nasca adesso, lo si poteva sapere da molto tempo prima che se ne occupassero le grandi testate. Le guide su come gestire bene la propria privacy sono online da molto prima del caso Cambridge Analytica, eravamo noi a non servircene. È la svolta che serve al nostro stare in rete: non solo aspettare che qualcuno ci dica (e decida) dove andrebbero messe le regole, non solo prendere precauzioni per difenderci dai pericoli, ma essere noi i primi a dare significato alla nostra vita online e in base a quella esigere da attori economici e politici il rispetto per la nostra libertà. Senza questo livello, saremmo totalmente inefficaci anche sugli altri due. Lo spiega bene Antonio Pavolini nel suo recente libro «Oltre il rumore»: accontentarsi del web come ce lo raccontano gli altri significa lasciarli decidere per noi sulla forma da dare al mondo interconnesso in cui, che ci piaccia o no, viviamo.