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Se Trump ripesca e rilancia l’idea nazionalistica ottocentesca
Sembra proprio che Trump, mentre deve fare i conti con la nona potenza nucleare, cioè con la Corea del Nord, faccia il possibile per fare nascere anche la decima potenza nucleare, e cioè l’Iran. Come è noto, con un accordo faticosamente raggiunto due anni fa dal presidente Obama, all’Iran è stato consentito di sviluppare energia nucleare a scopi pacifici purché non la usi a scopi militari. Il 12 settembre scorso il giapponese Yukiya Amano, che presiede l’Aiea, l’Agenzia Internazionale della Energia Atomica incaricata di controllare il rispetto dell’accordo, ha detto che in due anni sono state fatte in Iran ben quattrocento ispezioni da altrettanti ispettori e tutte hanno confermato la lealtà dell’Iran nel tenere fede agli impegni presi. Ma per Trump il trattato probabilmente dovrà essere denunciato permettendo quindi di fatto anche alla repubblica islamica di essere libera di darsi un armamento nucleare. In realtà Trump al solito mescola chili con litri e nella sua aggressività contro l’Iran mette insieme il problema nucleare, il presunto appoggio al terrorismo, il preteso ruolo destabilizzatore ruolo destabilizzatore nel Medio Oriente e l’ostilità del governo israeliano verso Teheran. Sta ritornando in bocca ad un presidente americano la categoria degli «stati canaglia» responsabili dell’«asse del male» inaugurata da Bush e di cui ancora non abbiamo finito di pagare le conseguenze dall’Afganistan all’Iraq.
Per la verità l’accordo con l’Iran non è un problema privato dell’America, ma è un accordo che riguarda tutta la comunità internazionale. Ma purtroppo gli interessi che Trump si sente investito a tutelare sono soprattutto gli interessi americani che prevalgono su tutto senza rendersi conto che la sua idea del «prima l’America» (America first) è una idea nazionalistica ottocentesca ormai morta e sepolta da quasi un secolo in quasi tutto il mondo occidentale. Opponendosi agli accordi sul clima di Parigi Trump pensa, ad esempio, che la difesa dell’uso del carbone americano sia più importante della conservazione del cielo che sta sopra a tutti gli uomini. Ma se gli americani si fossero fatti guidare dal loro egoismo nazionale non avrebbero preso nemmeno le decisioni più importanti della loro storia come quella di mandare a morire quattrocentomila dei loro figli per liberare l’Europa dal nazismo e quella di avere spedito sempre nel vecchio continente i 14 miliardi di dollari dell’epoca del piano Marshall per fare risorgere l’Europa dalle sue macerie.
Quasi nessun dei grandi problemi del nostro tempo può oggi trovare una soluzione nazionale. Può solo avere risposte multipolari se non mondiali. Nessuno può pensare di salvarsi con la sola forza delle sue gambe e le risorse della sua razza. Diceva Kennedy: «La realtà suprema del nostro tempo è che siamo tutti figli di Dio e che su questo pianeta siamo tutti ugualmente vulnerabili».
Nell’età della guerra nucleare nessuno può pensare di essere al riparo dalla guerra perfino se ne rimane fuori. Nell’epoca dei cambiamenti climatici i paesi contadini dipendono dall’inquinamento e dal disinquinamento dei paesi industriali. Non si può regolare l’emigrazione se non si interviene contemporaneamente sui paesi di origine, sui paesi di transito, sui paesi di arrivo e sui paesi di accoglienza. Puoi costruire un muro contro il terrorismo e poi vederlo spuntare all’ombra di quel muro perché non è con il cemento che si mette un catenaccio alla sua forza di attrazione che invade l’etere e le menti prima di qualsiasi luogo. Né si può combattere la droga se non si affronta nei luoghi di produzione oltre che in quelli di consumo. Perfino nei confronti della mondializzazione non c’è nessuna soluzione nazionalistica, ma solo planetaria. Quando Trump sarà riuscito a riportare negli Stati Uniti la produzione delle macchine americani che si è trasferita nel Messico si accorgerà che le macchine americane sono invendibili perché costeranno troppo rispetto alle altre.
E c’è di che essere preoccupati. Secondo Einstein il nazionalismo è «la malattia infantile», «il morbillo delle nazioni». Ma l’America ha oggi quasi trecento anni e tutti sanno come sono pericolose le malattie dei bambini quando si prendono da grandi.