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Referendum: tre buone ragioni per recarsi ai seggi
Ci siamo. Al termine di una campagna lunga e convulsa, strattonata tra il tentativo di discutere sul merito della riforma e la tentazione di ridurre tutto a polemica di schieramento (tentazione a cui nessuna delle parti in campo si è sottratta), finalmente è arrivato il momento in cui possono decidere i cittadini.
La sovranità popolare, che è la sostanza della democrazia, si esprime in modo specifico e privilegiato proprio con il voto. E se votare non è mai un atto di routine, in questo caso la partecipazione alle urne assume una rilevanza veramente straordinaria. Innanzitutto per la materia del referendum.
La riforma sottoposta al giudizio degli elettori, dopo la complessa procedura parlamentare di approvazione, non riguarda un singolo aspetto, per quanto importante, della vita civile. La legge costituzionale pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile scorso, infatti, modifica aspetti significativi dell’assetto istituzionale della Repubblica, così come risulta dalla Carta del 1948 e dalle leggi di revisione che sono state approvate successivamente. L’enfasi che è stata messa nel dibattito pubblico sul referendum, al netto delle intenzioni palesemente strumentali e dei toni talvolta apocalittici, non era dunque priva di un fondamento razionale.
Un secondo motivo, chiaramente collegato al primo, attiene al clima complessivo che si sta vivendo circa i rapporti tra eletti ed elettori – o in un senso ancora più largo tra élites e popolo – in Italia come in tutto il mondo occidentale.
Un clima che coinvolge il senso stesso della politica in un contesto di democrazia rappresentativa e costituzionale. Ebbene, l’esercizio partecipato e consapevole della sovranità popolare a cui siamo chiamati, è anche una risposta alla diffusa preoccupazione per la ventata di populismo che ha scosso persino Paesi di grande tradizione democratica. In un certo senso, forse non precisissimo dal punto di vista politologico ma intuitivo, che cos’è il populismo se non una parodia dell’autentica sovranità popolare? In questo sta la sua capacità di fascinazione e quindi anche la sua insidia più subdola. Ed è per questo che lo si può arginare solo con strategie inclusive, non attraverso scorciatoie, non costruendo muri. Serve un più di democrazia partecipata e consapevole, non un meno. A questo proposito, tornano alla mente gli appelli convergenti del presidente e del segretario generale della Cei a partecipare al voto e a farlo con senso di responsabilità, informandosi personalmente, in modo approfondito, scegliendo con lucidità e non sulla base di reazioni emotive.
C’è anche un terzo motivo che rende importante in modo speciale l’esercizio del diritto-dovere del voto nel referendum costituzionale. Un motivo più tecnico, ma non meno decisivo. Per la validità di tale referendum, infatti, stante la finalità di confermare o non confermare una legge costituzionale già approvata dal parlamento, ma senza la maggioranza dei due terzi, non è richiesto alcun quorum. In pratica, tra il Sì e il No vince chi prende più voti, a prescindere dall’affluenza alle urne.
Due soltanto i precedenti di questo tipo di referendum. Nel 2001 partecipò al voto il 34,05% degli elettori e vinse il Sì con il 64,21%. Nel 2006 l’affluenza fu del 52,46% e vinse il No con il 61,29%. Dunque i precedenti non sono per nulla confortanti in termini di partecipazione. Ma il livello di mobilitazione che si è registrato in questi mesi è molto, molto superiore a quello di dieci o quindici anni fa, il che autorizza a prevedere una percentuale di votanti più elevata. C’è da sperarlo, quantomeno. E soprattutto c’è da sperare che, chiusi i seggi e scrutinate le schede, il bene comune degli italiani sia la bussola per la fase nuova che si apre, quale che sia il risultato del referendum.