Opinioni & Commenti
Rischio sismico: Cosa fare per proteggere i nostri fragili «tesori»
Se appena guardiamo un po’ indietro nel tempo, il bilancio dei terremoti nella nostra regione non può non impressionare. Con ciò, senza creare ansie, ricordando che si hanno notizie di gravi sismi fin dal 1293 (a Pistoia), e prendendo realisticamente e responsabilmente atto della «serie storica», dalla fine dell’Ottocento in qua, dobbiamo rilevare:
– 1895, con magnitudo stimata 5,2, l’intera area fiorentina. Furono danneggiati circa mille edifici privati, 14 chiese, numerosi conventi, con danni al Palazzo Vescovile, allo Spedale degli Innocenti, a Palazzo Vecchio. Alla Certosa del Galluzzo crollarono parte di due lati del chiostro grande.
– 1899, terremoto con danni nel territorio pratese e Val di Bisenzio.
– 1909, terremoto nel senese, in Val d’Orcia, con epicentro Murlo, con danni a Pienza e Buonconvento.
– 1919, terremoto in Mugello, con estensione fino a Forlì: 200 morti.
– 1920, terremoto in Garfagnana e Lunigiana (magnitudo stimata 6,5), con estensione fino a Modena e Reggio Emilia: 300 morti.
Prescindiamo da tutta una serie di eventi sismici meno gravi, ma ininterrotti, che ci hanno accompagnato fino ad oggi, interessando soprattutto il Mugello, la Garfagnana e la Lunigiana. Come si vede, il panorama non è consolante; e siccome ad oggi, la capacità «scientifica» di previsione è sostanzialmente affidata alla statistica, non c’è da stare proprio tranquilli.
Ciò premesso, vediamo di fare una pacata riflessione sulla «cultura» che caratterizza il problema sismico nel nostro Paese e in Toscana, in particolare, che spesso, è ricondotto al solo, se pur essenziale, «rischio sismico». Possiamo partire dall’impegno preso dal nostro primo ministro, sull’emozione ancor viva della sua visita ad Amatrice: «un piano per render sicure le città». Conosciamo Renzi e gli crediamo. Tuttavia, non possiamo non ricordare come altre volte abbiamo registrato codesto impegno, in governi pregressi, dopo il Friuli, l’Umbria e le Marche, L’Aquila, l’Emilia. Il fatto è che, passata l’emergenza e la pax romana che tocca l’intero sentimento del Paese, altre cose, altri impegni (certo meno essenziali) fanno dimenticare i programmi per la «messa in sicurezza» degli edifici pubblici, dei monumenti, delle abitazioni civili, stornando altrove le risorse: è l’effetto «isteresi» nella coerenza dei programmi di governo: quella condizione metaforica mutuata dalla fisica, secondo cui si assiste al progressivo ritardo del manifestarsi di un fenomeno fino a perderne la memoria. Ciò è ripetutamente avvenuto negli ultimi decenni sul problema sismico.
Quando si parla di questi problemi bisogna innanzitutto esprimere un pensiero di gratitudine a Giuseppe Zamberletti, ministro democristiano che inventò il «Dipartimento della protezione civile» in Italia , che oggi opera con unanime apprezzamento.
Il nostro è un paese «geologicamente giovane», interessato da forte rischio sismico per tutta l’area appenninica, da nord a sud, fino alla Sicilia (si ricordi il tremendo sisma della Valle del Belice); ne consegue che parte del Casentino, del Mugello, dell’Appennino Pistoiese, della Garfagnana e della Lunigiana, sono «geografie» a maggior rischio. Insomma, disponiamo già da tempo di una mappatura della pericolosità sismica dell’intero Paese; e questo è già un titolo di merito perché consente una delle priorità programmatiche con cui lavorare.
Inoltre, il dibattito tecnico sulle cause dei danni e sulle normative da seguire per l’edilizia esistente e le nuove edificazioni ha raggiunto un apprezzabile livello che fa onore alla cultura architettonica, dell’ingegneria e della geotecnica italiana. Ne sono testimonianza le numerose iniziative che in questa direzione hanno ripetutamente preso le università toscane (di Firenze in particolare) e l’ormai storico e stimato Collegio ingegneri della Toscana. In particolare, va ricordato il Convegno internazionale «Catastrofi naturali e Beni culturali», organizzato nel novembre 2000 dall’Ateneo fiorentino, dal Comune di Firenze, dalla Commissione nazionale Unesco e dalla Fondazione «La città di ieri per l’uomo di domani»: vi parteciparono, fra gli altri, geologi come Paolo Canuti e Nicola Casagli, strutturisti come Giorgio Croci e Salvatore Di Pasquale, specialisti antisismici come Sergio Zaldivar Guerra (Cultural Heritage di Mexico City), Akatsuki Takahashi (Unesco, Heritage Risk), Antonio Borri, Carlo Blasi, Antonio Paolucci, Mario Lolli Ghetti.
Chi scrive, con Gennaro Tampone, coordinò quel meeting, curandone poi gli Atti. Fu in quella sede che, per la prima volta in modo sistematico e formale, fu concepita l’idea di una task force, un corpo pluridisciplinare di tecnici esperti in conservazione per casi di calamità naturali, da porre a disposizione dell’Unesco, immediatamente disponibili ed operativi. Un tema questo, sempre all’attenzione del Collegio ingegneri della Toscana che, proprio negli ultimi numeri del suo «Bollettino» ha dibattuto e sta dibattendo con molta concretezza le attuali Norme tecniche antisismiche, valutandone alcune criticità. Sostanzialmente si può dire che le norme antisismiche ci sono, che sono applicate per i nuovi edifici (fatte salve le eventuali patologie, fortunatamente perseguite dalla magistratura). Siamo invece in forte ritardo negli interventi di messa in sicurezza degli edifici pubblici (delle scuole, in particolare) e dell’edilizia privata. E va pur detto che le norme attuali si attagliano più agli edifici in cemento armato che a quelli – plurisecolari, che costituiscono la gran maggioranza del patrimonio edilizio italiano – in muratura ordinaria. L’esperienza, infatti, ci ha insegnato che trasferire quelle norme, in modo acritico, alla muratura tradizionale, può essere anche un grave errore.
Certamente quasi problema a sé è quello della salvaguardia, della messa in sicurezza e della provvisione antisismica del patrimonio monumentale, particolarmente diffuso e prestigioso in Toscana (e nelle zone storicamente interessate dai sismi). Pensiamo alle tante pievi diffuse sull’Appennino, ai monumenti del Mugello (il Pretorio di Scarperia, uno per tutti), a Bràncoli, a Castelvecchio, a Barga, a Pitigliano…
Per i monumenti, infatti, non possono essere applicate le stesse norme degli edifici correnti: non a caso, per gli edifici storici si parla di «miglioramento» (cioè, avvicinamento alle condizioni di sicurezza) e non di «adeguamento». Infatti, come si potrebbe adeguare la Torre di Pisa o la Torre di Arnolfo alla normativa generale?: dovremmo blindarle, dentro e fuori, ottenendone dei «monumenti armati» completamente sfigurati e inaccettabili.
Peraltro, va ricordato come nei crolli dei monumenti conseguenti a sisma, occorre agire con particolare competenza fin dalle modalità di rimozione delle macerie, essendo imperativa la necessità di recuperare le opere d’arte mobili trascinate nel collasso, di individuare e classificare i dettagli, dai capitelli alle modanature, ai frammenti di affresco.
Il Ministero dei Beni culturali dispone già di «mappe di rischio» del nostro patrimonio, così come dovrebbe disporre di ragionevoli risorse previste a questo fine da leggi pregresse. Preso atto quindi delle risorse tecniche e culturali ben presenti e mature nel paese, auguriamoci che il presidente Renzi e il ministro Franceschini, trovino strade di «governo» intelligenti ed efficaci non solo per corrispondere alla drammatica emergenza delle zone colpite (rispettando l’imperativo umano e sociale del «dove era e più sicuro di come era»), ma di mettere finalmente in moto, in modo sistematico un «programma di messa in sicurezza del patrimonio edilizio nazionale». Sarebbe un segno storico e indelebile di civiltà per il Paese. Ci riuscì Fanfani, a dar case e fiducia agli italiani, in ben altre condizioni sociali ed economiche, auguriamo a Renzi di saper fare altrettanto!