Opinioni & Commenti

La strana storia dei due papi: il Papa è uno, l’altro è emerito

«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino (…). Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005». Sono le parole con cui Benedetto XVI, l’11 febbraio del 2013, annunciava solennemente ai cardinali riuniti in Concistoro le proprie dimissioni.

Nessuna sfumatura di incertezza, nessuna ambiguità: compiendo un gesto di umiltà e di coraggio che, al di là di tanti altri suoi meriti, lo consegnava alla storia, papa Ratzinger, «con piena libertà», si spogliava dell’altissima dignità istituzionale rivestita nel corso di quasi otto anni. Non ha nulla di sorprendente, perciò, il fatto che Francesco, il 26 giugno scorso, nel viaggio di ritorno dall’Armenia, rispondendo a un giornalista, abbia sottolineato che «c’è un solo Papa, l’altro è emerito». Più strano, invece, è che abbia dovuto farlo.

Lo spunto è venuto da un discorso fatto recentemente da mons. Georg Gänswein – segretario di papa Ratzinger, nominato poi dalla stesso Ratzinger arcivescovo e  prefetto della Casa pontificia (tutte cariche che ricopre tuttora) – durante la presentazione di un libro su Benedetto. Nel testo di questo discorso, così come è stato riportato dalla stampa, dopo aver ricordato che la Chiesa «continua ad avere un unico papa legittimo», si trova una singolare interpretazione  della frase con cui Benedetto dichiarava di non avere più le forze «per esercitare in modo adeguato il ministero petrino».

Commentandola, monsignor Gänswein notava che «la parola chiave di quella Dichiarazione è munus petrinum, tradotto – come accade il più delle volte – con “ministero petrino”. E, tuttavia, munus, in latino, ha una molteplicità di significati. Può voler dire servizio, compito, guida o dono, persino prodigio». E, sorprendentemente, concludeva: «Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione  a un tale “ministero petrino”. Egli ha lasciato il soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio, non ha affatto abbandonato questo ministero».

Francamente, con tutto il rispetto per la dignità episcopale del suo autore, questa argomentazione – senza che si entri nel merito – appare deboluccia sul piano logico. Vi si insiste sulla molteplicità di significati del termine munus. Ma quali che possano essere questi significati (peraltro, subito dopo, lo stesso  autore riprende la traduzione italiana «ministero»), la cosa certa è l’affermazione di Benedetto XVI che rinunziava a tale munus petrinum, non sentendosi più adeguato ad esercitarlo. Dire che egli «non ha affatto abbandonato questo ministero» significa fargli dire esattamente il contrario di quello che ha detto.

Se poi si guarda al contenuto, salta agli occhi la difformità fra la tradizione costante della Chiesa, riconosciuta all’inizio dallo stesso Gänswein, secondo cui nella Chiesa c’è «un unico papa legittimo», e dunque un unico titolare del ministero petrino, e l’affermazione che Benedetto, con le sue dimissioni, «non ha affatto abbandonato questo ministero». Un’affermazione come minimo equivoca e suscettibile di portare alla conclusione, inaccettabile dal punto di vista di un cattolico, che ci sono nella Chiesa due papi (anche se nel testo del discorso questo viene escluso e si parla invece di un «ministero in comune» o di un «ministero allargato»).

Dobbiamo sperare, dunque, che, anche se non ci risulta alcuna smentita, il discorso sia stato mal riportato dai mezzi di comunicazione. Nella versione attuale, però, esso si è prestato ad alimentare le farneticanti «deduzioni» con cui Antonio Socci, sul suo blog, il 22 maggio scorso, lo commentava: «Siamo a una vera svolta. O il papato diventa un organo collegiale o è invalida la rinuncia di Benedetto».

Socci dovrebbe fare causa al suo vecchio insegnante di analisi logica. Perché, se non è un capolavoro di consequenzialità il discorso di monsignor Gänswein (almeno nella versione che noi ne abbiamo), meno ancora ha una parvenza di razionalità il commento del giornalista. Intanto perché considerare «una svolta» un intervento fatto in un’occasione assolutamente non ufficiale è una palese forzatura. Ma anche perché risulta del tutto incomprensibile il motivo che rende inevitabile l’alternativa tra la fantasiosa ipotesi di un papato collegiale e l’invalidità della rinuncia di Benedetto.

Esiste una terza via, la più semplice, quella indicata da Benedetto stesso quando ha invitato i cardinali ad eleggere un nuovo pontefice al suo posto e ha parlato del proprio ruolo di papa emerito: «Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». Questo, che non è più certamente il ministero petrino (a cui infatti Ratzinger aveva appena detto di voler rinunciare), è il posto a cui egli si è sentito chiamare da Dio. E noi gli siamo grati della chiarezza con cui ha parlato, anche se con una punta di nostalgia per il tempo in cui i segretari dei papi continuavano a fare il loro lavoro di segretari.