Opinioni & Commenti
L’economia mondiale, una fabbrica di disuguaglianza
Una volta, quando le cose sembravano andare abbastanza bene, si sosteneva che bastava che l’economia crescesse perché tutti stessero meglio. Si diceva: «L’alta marea solleva yacht e canotti» cioè arricchisce i ricchi, ma fa stare meglio anche i poveri. Ma oggi che l’economia ha smesso di crescere e ci sarebbe bisogno di più solidarietà verso i più sfortunati accade invece che da un lato c’è più miseria e dall’altro c’è più ricchezza. A crescere è solo una disuguaglianza sempre più impressionante. Secondo l’ultimo rapporto Oxfam dal 2010 al 2015 la metà più povera del pianeta ha aumentato la propria povertà del 41%. Al contrario i più ricchi hanno aumentato la loro ricchezza del 44%. Lo ha detto con franchezza mista ad un senso di colpa anche Warren Buffet, il grande finanziere americano terzo uomo più ricco del mondo, adoprando un linguaggio marxista alla rovescia: «C’è davvero nel mondo la lotta di classe e questa lotta è la mia classe, la classe dei più ricchi che la sta vincendo». Cinque anni fa per arrivare a mettere insieme una ricchezza che corrisponde al reddito della metà più povera del pianeta ci volevano i 388 uomini più ricchi del mondo. Oggi ne bastano 62.
Gli stati terrorizzati dal debito aumentano le tasse e riducono i servizi. E le tasse si scaricano poco sui grandi patrimoni che potrebbero trasferirsi o investire altrove in caso di patrimoniali o aliquote troppo alte come quelle che ci si potevano permettere una volta in un mercato chiuso. Per fare cassa le tasse si scaricano per la maggior parte sulla moltitudine di chi ha poco. Come diceva Petrolini: «Bisogna prendere il denaro dove si trova. Presso i poveri perché hanno poco, ma sono tanti». La politica dell’austerità riduce o rende più costosi i servizi che lo Stato mette a disposizione dei non abbienti, diminuisce o frena le pensioni e l’assistenza sociale e in genere riduce tutte quelle misure di welfare che in passato sono state di fatto uno stipendio unico o supplementare per chi appena arrivava alla fine del mese. La paura del futuro induce la maggior parte della gente a tenere i pochi soldi che ha sul conto corrente o, visti i tempi che corrono, sotto il materasso. Così crollano i consumi e aumenta la disoccupazione. Le imprese nazionali per cercare di sopravvivere devono vendere all’estero, ma puntando sulle esportazioni devono fare i conti con la concorrenza mondiale. Devono in pratica cercare di frenare i salari o altrimenti delocalizzare la propria produzione per diminuire i prezzi. La logica del mercato internazionale non risponde più agli interessi nazionali. Basta pensare che il crollo del prezzo del petrolio che dovrebbe essere una buona notizia per un paese che non ha petrolio come il nostro è invece una disgrazia che fa crollare la borsa perché l’economia internazionale ha bisogno di paesi petroliferi con le tasche piene di miliardi per potere vendere all’estero i propri prodotti.
Se l’industria nazionale si trasferisce altrove bisogna cercare di sostituirla con investimenti stranieri. Ma per invitarli in patria soprattutto a loro bisogna offrire servizi che costano e di nuovo moderazione salariale e contributiva che renda un paese appetibile a chi ci vuole fare affari. Un po’ dovunque, a cominciare dagli Stati Uniti, dove esistono, i salari minimi sono stati diminuiti.
Se in questa situazione questi sono gli handicap di chi ha poco troppi sono i vantaggi di chi ha già molto. In un mondo globalizzato in cui merci e capitali possono muoversi liberamente l’imprenditore indipendentemente dalla sua nazionalità può decidere di andare a produrre dove vuole, cioè dove trova in pratica i salari e in genere il costo del lavoro più basso. In sostanza è l’imprenditore che decide in pratica quante tasse deve pagare. Se ne paga troppe nel paese di origine se ne. Se va in un altro paese non le paga nemmeno lì perché è solo a queste condizioni che lì c’è andato. Persino la Fiat, l’industria tricolore per eccellenza, paga ormai le sue tasse nel Regno Unito. Bisogna inoltre aggiungere che la stragrande maggioranza dei ricchi nel mondo sono proprietari di multinazionali che possono decidere di collocare i loro capitali dove vogliono compresi i paradisi fiscali. È stata la stessa Ocse, l’organizzazione economica dei paesi occidentali, a denunciare che spesso le multinazionali pagano appena il 5% dei loro profitti perché hanno la loro sede principale in un minipaese che si chiama Andorra o le Bahamas. Thomas Piketty nel suo noto libro su Il capitale nel XXI dedicato alla crescita della disuguaglianza nel mondo propone di eliminare soprattutto questi paradisi fiscali.
Infine a pro’ dei ricchi bisogna aggiungere che il capitalismo del Duemila è soprattutto capitalismo finanziario. Non si arricchisce più né con il grano, né con le auto, ma fa soldi soprattutto con i soldi. Recentemente Stefano Zamagni ha ricordato che il denaro emesso e circolante nel mondo fatto di liquidi, di crediti e debiti che era di 20mila miliardi di dollari venticinque anni fa è ora salito a 60mila miliardi di dollari. È questa una ricchezza immensa che gioca in un mondo in preda ai debiti, con protagonisti senza volto, con ricchi che non sono identificabili e vicini ai loro dipendenti come i vecchi capitanti di industria e che non sono soggetti nemmeno al rimorso di distruggere una fabbrica e di assistere alla rabbia e alla disperazione di chi è licenziato. I finanzieri giocano operano in mercato in cui le numerosissime transazioni finanziarie che avvengono in pochi secondi non sono tassate, vivono sfruttando o addirittura creando un panico finanziario o le paure di massa spesso create ad arte che spesso ingiustamente chiamano regole del mercato in un mondo in cui più nessuna autorità è capace di garantire veramente quanto vale chi. Si opera investendo o disinvestendo capitali ormai quasi ad interessi zero in cui il profitto viene soprattutto dalla speculazione esercitata prima sull’indebolimento e poi sull’acquisto di monete e imprese. Non è un caso che fra gli uomini più ricchi del mondo c’è George Soros, il finanziere oggi dedito anche alla filantropia, ma che in pochi giorni nel settembre 1992 guadagnò un miliardo di dollari speculando sulla lira e quasi altrettanto speculando sulla sterlina. E la crisi che il mondo sta vivendo ormai da otto anni è figlia di questa finanza che fa e disfa valori monetari che non hanno più un rapporto con il prezzo delle cose reali né con la necessità di scambiarle.
Ma in fondo i rapporti e le statistiche anche le più crudeli e le più recenti non ci dicono nulla di nuovo. Questo macchina che fabbrica disuguaglianza era stata già descritta nelle sue linee nell’enciclica di Papa Francesco Evangeli gaudium di due anni fa.