Vita Chiesa

60 anni fa la Messa in italiano: non cambiò solo la liturgia

Il 7 marzo 1965 san Paolo VI celebrava per la prima volta in lingua italiana. Il segno di una Chiesa che voleva farsi capire da tutti. Un cambiamento che riguardò anche gesti, architettura, paramenti. La riflessione e il ricordo di don Severino Dianich

La Messa celebrata da Paolo VI il 7 marzo 1965 nella chiesa di Ognissanti a Roma

«Oggi la Messa in italiano. La Chiesa va a sinistra». Più o meno così, il 7 marzo del 1965, La Nazione intitolava il suo articolo di fondo. Da un lato poteva essere ritenuta una bizzarria, da un altro lato bisogna riconoscere che il titolista del quotidiano fiorentino coglieva una componente reale dell’evento. Solo se, naturalmente, con quell’ «andare a sinistra», non si intende votare per i partiti di sinistra o promuoverne le ideologie e i programmi, ma semplicemente, dirigere la propria attenzione alla base popolare della società, non ad alcuna delle sue élite.

Nella Costituzione del Concilio Vaticano II sulla liturgia il termine «popolo» ricorre ben quaranta volte. È un chiaro segno che la Chiesa del Concilio intendeva, con la riforma liturgica, «andare verso il popolo». Al numero 21 della Sacrosanctum concilium i Padri conciliari chiarivano esplicitamente il loro intento: «Perché il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la sacra liturgia racchiude, la santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia. … In tale riforma l’ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria».

Potrà meravigliare questa accondiscendenza al titolo, politicamente corretto per quegli anni, del quotidiano fiorentino, ma sarebbe bene non dimenticare che negli anni Sessanta del secolo scorso, anche se negli ambienti ecclesiastici non lo si voleva riconoscere, la società, era una società classista: bastava osservare come una persona si vestisse e come parlasse, per distinguere l’operaio dall’impiegato, Questi, finite le scuole elementari, veniva immediatamente messo alle prese con il rosa-rosae del latino e con la traduzione del De bello gallico di Giulio Cesare: il latinorum della Messa non gli era del tutto estraneo.

L’altro, finite le scuole elementari, lasciava la scuola, i libri e la penna. Popolo e borghesia erano effettivamente due gruppi umani diversi socialmente e avversi politicamente. La Democrazia cristiana si dava da fare per propagandare l’interclassismo, ma il Partito comunista promuoveva la lotta di classe. E don Milani ruggiva dalla sua Barbiana contro i privilegi di Pierino. Non stupisce, quindi che le contrarietà alla riforma liturgica siano venute, in gran parte, dagli ambienti della buona borghesia, dei liberi professionisti, dei professori e degli intellettuali in genere, mentre la base popolare l’aveva accolta con entusiasmo. Per gli intellettuali e i borghesi in genere l’abbandono del latino era come un buttare a mare un ricco patrimonio culturale, per i ceti popolari la liturgia in italiano era, al contrario, un acquisire un patrimonio di preghiera, di pensieri e di parole, che prima veniva loro concesso di ascoltare, ma non di comprendere, perché non era detto nella loro lingua.

A qualcuno potrà dispiacere questo far notare come le dialettiche della vita sociale rimbalzassero sulla vita liturgica della Chiesa e come i problemi della liturgia possano essere letti anche facendo riferimento alla questione sociale. In realtà è l’opposto che dovrebbe preoccupare, cioè una liturgia fuori della vita, dal linguaggio arcaico, stilizzata e asettica, come non di rado oggi la si celebra nelle nostre chiese. È il brutto segno di una Chiesa incapace di mordere sulla realtà della vita e di una spiritualità aerea, distaccata e individualista, non coerente con il vangelo del Verbo che si è fatto carne, di Dio che si è fatto uomo per vivere fra gli uomini.

«La Messa in italiano» fu un evento che andò ben al di là di quanto dicono queste due parole. «La Messa in italiano» è diventato, meritatamente, lo slogan espressivo di tutto un sommovimento della Chiesa, che il Concilio aveva provocato, ai più diversi livelli della sua vita. Si pensi solo, in maniera un po’ pittoresca, ai professionisti più diversi che già nel solo ambito della riforma liturgica, vi sono stati coinvolti, dagli stilisti nella creazione delle casule e di un nuovo taglio dei camici da liberare da pizzi e ricami, desueti eredi del gusto settecentesco, agli architetti nell’invenzione di spazi celebrativi adatti alla partecipazione attiva dei fedeli, dai tecnici del suono chiamati a dare voce a soggetti diversi e diversamente collocati nello spazio liturgico, agli illuminotecnici impegnati a sostituire illuminazioni crepuscolari, presuntivamente adatte al raccoglimento, con atmosfere luminose più solari, pur non trascurando il bisogno di luoghi o angoli particolari, questi sì destinati alla devozione individuale, e così via. Bisognava inventare, e lo si fece, una nuova gestualità, che implicasse la partecipazione di tutti, l’allargamento del protagonismo da quello del prete e del chierichetto a quello del lettore, dell’accolito, dei ministranti, del cantore e dell’animatore. Perché nessuno ceda alla banalizzazione di queste componenti della liturgia, vorrei ricordare un mio parrocchiano di quegli anni, al quale chiesi una domenica di portare all’altare, all’offertorio, la pisside con le ostie, mentre altri avrebbero portato il calice, le ampolline con l’acqua e il vino e altri, infine, le offerte che erano state raccolte. Mi disse di no. Vedendomi sorpreso, aggiunse: «Quando mi vedrai venire all’altare con le offerte, vorrà dire che qualcosa è cambiato. Ora non è il caso». Passò il tempo, qualcosa cambiò e lo vidi venire all’altare, molto compreso, commosso, con in mano la pisside con le ostie. E poi lo rividi venire, con la mano aperta a prendere l’ostia e comunicarsi.

Anche oggi avremmo bisogno di uno scossone, di un nuovo moto di riforma, che risvegli l’entusiasmo per una liturgia che appare stanca nei suoi stereotipati movimenti e nelle sue arcaiche parole. Il sacramento, con tutta la ricchezza di grazia che vi celebriamo e che riceviamo, appare abbigliato di un vestito troppo vecchio. Il linguaggio con il quale si esprime non tocca il cuore, non raggiunge i sentimenti, non commuove. La gestualità è, e lo si vede, troppo comandata per essere sinceramente espressiva della ricerca di Dio dei fedeli e del prete all’altare. Vescovi e Papa, che ne hanno la responsablità, bisogna che si armino di coraggio e mettano mano a progettare una nuova riforma, che permetta di attuare davvero, e fino in fondo, quanto i Padri del Vaticano II hanno sognato.