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50 anni di Sant’Egidio. Impagliazzo: «L’augurio? Essere sempre una comunità in uscita»

È il popolo delle tre P: preghiera, pace e povertà. È diffuso oggi in oltre 70 Paesi del mondo. 60mila persone di tutte le età e condizioni sociali. È una grande foto di famiglia quella che ritrae la Comunità di Sant’Egidio: quest’anno compie 50 anni. Nacque infatti a Roma nel 1968, a Trastevere, nel cuore di Roma. A fondarlo Andrea Riccardi e un gruppo di giovani che, in piena rivoluzione studentesca, scoprirono nelle pagine del Vangelo un’energia di cambiamento che partiva dai cuori. Venne come conseguenza naturale prima l’impegno per i poveri, poi per la pace – perché «la guerra è la madre di tutte le povertà» – e poi la scoperta della forza della preghiera perché laddove falliscono gli uomini, può operare lo Spirito della pace. È lo «Spirito di Assisi» che, dal 1986, Sant’Egidio porta ogni anno in tutte le città d’Europa, radunando nell’unica invocazione a Dio uomini di tutte le fedi religiose, ai quali nel tempo si sono uniti anche rappresentanti del mondo politico e della cultura. Sant’Egidio è conosciuta oggi nel mondo per il suo lavoro di dialogo, per i processi di pace avviati in più punti del pianeta, per il suo impegno nelle periferie più povere delle città e ultimamente anche per il progetto dei corridoi umanitari che insieme alle Chiese evangeliche sta portando avanti in Italia, Francia e in Belgio. La «Festa» del suo 50° è a San Giovanni in Laterano dove a presiedere la Messa c’è il cardinale segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Presenti anche il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Il Sir ha intervistato Marco Impagliazzo, presidente oggi della Comunità.

Sant’Egidio nasce nel pieno della contestazione sessantottina. Quale fu in quel contesto la scintilla che portò alla sua fondazione?

«Sant’Egidio emerge in un contesto storico di grande contestazione da parte dei giovani occidentali, europei e americani, alle strutture fondamentali della società, alla famiglia, alla Chiesa, alla scuola, alle forze armate, alle istituzioni in genere. Una contestazione nella quale Sant’Egidio nasce senza porsi né a favore né contro ma dentro questi rivolgimenti maturando una convinzione molto chiara: la vera rivoluzione, quella che porta frutto, è la rivoluzione del cuore e non primariamente delle strutture della società. Quindi la domanda di cambiamento riguarda innanzitutto la vita personale interrogata dal Vangelo e dalla Parola di Dio. Questa fu la scelta, né di contrapporsi né di farsi trascinare ma vivere all’interno di un movimento per recepirne le esigenze di cambiamento, a partire da se stessi».

Da questo movimento è nato un popolo. Il popolo di Sant’Egidio. Quali sono oggi le caratteristiche che vi contraddistinguono?

«Una prima caratteristica è quella di aver superato tante frontiere, culturali e sociali, cioè di non aver posto confini a questo popolo, di non aver insistito su una nazione piuttosto che un’altra ma di lavorare per un mondo unito e una fraternità universale. D’altronde l’essere nati a Roma ci ha dato questa caratteristica tipica della Chiesa di Roma che è Chiesa universale, Chiesa che presiede nella carità. E poi il secondo tratto che ci caratterizza è che nel popolo di Sant’Egidio ci sono i poveri. I poveri non sono clienti della Chiesa, non sono assistiti dalla Comunità ma fanno parte integrante della Chiesa. Ne sono i tesori, come diceva san Lorenzo. E quindi le persone delle periferie sia delle grandi città europee che del mondo».

Viviamo in un mondo in cui si arriva ad uccidersi solo per il colore della pelle. In un contesto così, qual è la missione di Sant’Egidio oggi?«La missione è quella di indicare le strade per creare una società del vivere insieme in pace nel mondo globalizzato. L’uomo e la donna globalizzati sono spaventati, hanno paura di un mondo che è diventato troppo grande. Reagiscono male di fronte alla diversità, alla presenza di persone che vengono da altre culture, da altri contesti e da altre regioni. Si tratta, allora, di lavorare, invece, per una conoscenza reciproca molto approfondita, per conoscere la vita degli altri e andargli incontro, perché l’unica alternativa allo scontro è vivere e promuovere una cultura dell’incontro». Sfogliando l’album della famiglia di Sant’Egidio, qual è stato il momento più doloroso e quale quello più bello?«Momenti dolorosi ce ne sono stati tanti. Credo che quello più forte sia stata la scoperta della guerra. Noi siamo nati in una generazione che grazie a Dio, qui in Occidente, le è stata risparmiata la sofferenza della guerra. Ma l’abbiamo conosciuta direttamente sulla pelle delle persone di tanti nostri giovani che, per esempio, in Mozambico morivano per la guerra negli anni Ottanta. La tragedia della guerra ci ha interrogato e ci ha fatto assumere una responsabilità di cristiani che prendono un’iniziativa per la pace secondo la beatitudine: beati gli operatori di pace. C’è un’energia di pace nelle comunità cristiane e in ogni cristiano che va messo a frutto. Quindi la guerra è stato il trauma più grande che abbiamo conosciuto». E il momento più bello?«Sicuramente la pace in Mozambico è stata la gioia più grande che abbiamo provato. Ci arrivammo dopo due anni e mezzo di trattative. Una guerra che aveva fatto un milione di morti. Fu un successo pieno. La pace regge fino ad oggi ed ha fatto del Mozambico uno dei Paesi più sviluppati dell’Africa. Perché la guerra è la madre di tutte le povertà. Invece con la pace può rinascere tutto. La vicenda Mozambico dimostra che la pace è sempre possibile. Dimostra che la pace è possibile e che la pace può essere cercata ovunque. Anche nei contesti più difficili». Lei è il presidente della Sant’Egidio. Formuli lei gli auguri più belli?«A Sant’Egidio auguro di essere sempre una comunità in uscita e di vivere la gioia del Vangelo, come ci chiede Papa Francesco».