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25 anni di impegno per la pace (card. Sodano)
Pubblichiamo il testo dell’intervento del Segretario di Stato vaticano, card. Angelo Sodano, tenuto il 18 ottobre 2003, nell’Aula Nuova del Sinodo, in occasione dell’ultima giornata del Convegno sugli aspetti dottrinali e pastorali del Pontificato di Giovanni Paolo II, promosso dal Collegio Cardinalizio in occasione del XXV anniversario di Pontificato. All’incontro hanno preso parte tutti i Cardinali, i Presidenti delle Conferenze Episcopali, i Capi Dicastero della Curia Romana e i Patriarchi.
Cari Confratelli,
varie sono le facce di un prisma. Dando uno sguardo retrospettivo ai 25 anni di Pontificato del nostro amato Papa Giovani Paolo II, abbiamo finora esaminato alcuni aspetti di questa realtà storica.
La nostra analisi sarebbe però incompleta, se non ci soffermassimo, sia pur brevemente, a considerare il contributo importante che Giovanni Paolo II ha dato alla pace del mondo, negli ultimi anni del tribolato secolo XX ed al sorgere del Terzo Millennio cristiano.
Certo, il Romano Pontefice è, in primo luogo, il Pastore della Chiesa universale. A Lui Cristo ha affidato una missione religiosa, qual è quella di guidare la sua Chiesa, della quale è costituito Maestro, Sacerdote e Pastore.
Di fronte però ai drammi dell’umanità, il Papa ha sentito forte il suo dovere di essere anche il Buon Samaritano sul cammino del mondo. È un impegno morale che è profondamente legato alla missione pastorale e quasi da essa derivante, sull’esempio di Gesù che di fronte alle necessità del popolo del suo tempo esclamava: “Misereor super turbam” (Mc 8, 2).
1. Nel solco dei Predecessori
Ciò facendo, Giovanni Paolo II ha continuato e sviluppato l’opera dei suoi Predecessori, specialmente dei Papi del tragico secolo del Novecento, che si trovarono a guidare la barca di Pietro in un’epoca sconvolta da due immani conflitti mondiali: la guerra del 1914-18 e quella del 1939-45.
Pensando a tanto sangue sparso, il pensiero va inevitabilmente al Papa Benedetto XV, che già nel 1917 definiva la prima guerra mondiale come “un’inutile strage” ed a Pio XII, che di fronte alla prospettiva di un secondo conflitto, il 24 agosto del 1939, lanciava il suo grido ai responsabili delle nazioni: “Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra” (cfr. Discorsi e Radiomessaggi di Pio XII, Ed. Poliglotta Vaticana, vol. I, pag. 306). Giovanni XXIII aveva poi dedicato alla pace la sua ultima enciclica, la Pacem in terris, e Paolo VI nel suo discorso all’ONU aveva gridato: “Mai più la guerra!”, o, come disse esattamente in francese: “Jamais plus les uns contre les autres, jamais, plus jamais!” (4 ottobre 1965; cfr. Insegnamenti di Paolo VI, Ed. Poliglotta Vaticana, vol. III, 1965, pag. 511).
Inserendosi nel solco tracciato dai suoi Predecessori, il Papa Giovanni Paolo II sentì come uno dei suoi impegni di Pastore quello di contribuire alla pace nel mondo.
2. In un mondo bipolare
All’inizio del suo Pontificato, Giovanni Paolo II aveva trovato il mondo ancora diviso fra diverse sfere di influenza, come era stato deciso a Yalta, sulle rive del Mar Nero, nel febbraio del 1945, per opera delle Potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Come è noto, ben presto dopo quel tragico conflitto, i due grandi vincitori, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, iniziarono ad accusarsi mutuamente di non rispettare gli accordi di Yalta. L’URSS ed i suoi alleati si barricarono dietro a quella che Churchill denominò la “cortina di ferro”. Venne poi, nel 1948, il “colpo di Praga” e il blocco di Berlino. Iniziava una nuova tensione, che il noto giornalista americano Walter Lippman cominciò a denominare con il termine di “guerra fredda”, “Cold War“. Era una “guerra fredda” che doveva durare fino al 1989, con il crollo del muro di Berlino ed il ritorno a nuovi regimi democratici nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale.
I primi undici anni del Pontificato di Giovanni Paolo II si svolsero così in un mondo bipolare, ancor provato da profonde rivalità. È vero che già nel 1978 lo spettro terrificante della bomba atomica era passato, ma esisteva ancora “l’equilibrio del terrore”. Vari conflitti locali non erano che guerra per procura fra i due imperi. In quella situazione l’opera del Papa si rivelò quanto mai necessaria, per richiamare i responsabili della vita internazionale all’esigenza del rispetto dei diritti umani e della necessità della giustizia, per avere un’era di pace.
3. Il crollo dei regimi comunisti
E fu quest’opera insistente e coraggiosa a scavare nella vita dei popoli e nella coscienza degli uomini ed a preparare la stessa caduta del comunismo con l’avvento di un’era nuova di libertà e di pace interiore di tante Nazioni, fino allora prostrate dal giogo di implacabili dittature.
La caduta del muro di Berlino non fu che un simbolo del crollo di un muro spirituale, che era ben più grande di quello materiale. Il muro materiale aveva diviso in due la stessa capitale tedesca, con una barriera di 154 chilometri, ma ben più esteso era il muro spirituale, che veniva ad essere abbattuto anche grazie all’opera costante di Giovanni Paolo II, che mai cessò di gridare contro l’assurdità di quel sistema e di perorare i diritti dei popoli alla libertà, e, quindi, alla pace sociale.
L’opera del Papa Giovanni Paolo II in favore della pace in Europa centrale ed orientale è ormai riconosciuta da molti storici e tale opera rimane una delle benemerenze più grandi dell’attuale Pontificato.
4. Il nesso fra giustizia e pace
Già nella prima enciclica del suo Pontificato, la Redemptor hominis, del 4 marzo 1979, il Papa aveva individuato nel rispetto dei diritti umani l’unico cammino per assicurare la pace fra i popoli. “In definitiva,” scriveva il Pontefice, “la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo opera di giustizia è la pace mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti” (Redemptor hominis, n. 17).
Questa connessione fra giustizia e pace, come tra causa ed effetto, costituirà poi il punto focale degli innumerevoli interventi pontifici per la realizzazione della pace nel mondo, sia in ambito locale e regionale, sia in prospettiva mondiale.
Certo, tale strada maestra l’avevano già iniziata i Predecessori di Giovanni Paolo II. Il Concilio Vaticano II aveva poi tracciato il cammino da seguire, per aiutare l’umanità ad entrare in una nuova era di pace. È il cammino indicato dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes, nel famoso capitolo “De pace fovenda et de comunitate gentium promovenda” (Parte II, cap. V).
Il Papa Giovanni Paolo II sviluppò poi i principi stabiliti dal Concilio Vaticano II ponendovi degli accenti nuovi per rendere sempre più incisivo il messaggio cristiano, a seconda delle diverse situazioni locali.
5. Interventi del magistero
Al riguardo, potremmo distinguere due aspetti dell’opera del Papa: l’aspetto del suo magistero dottrinale e quello della sua azione pratica per evitare i conflitti e promuovere la pace (“de bello vitando“, come insegnava la Gaudium et Spes, e “de pace fovenda“).
Il magistero del Papa appare davvero multiforme. Vorrei citare in primo luogo tutti i 25 suoi messaggi per la Giornata Mondiale della Pace, che si celebra ogni anno, il primo gennaio. Sono 25 richiami al dovere della pace, alle sue basi come ai suoi frutti, fino a delineare il cammino da percorrere per ottenerla. Ogni anno il Papa ha dato al mondo un “leitmotiv” differente, per inculcare i grandi principi di una pace universale. Nei primi anni di Pontificato, furono svolti i grandi temi: “Per giungere alla pace, educare alla pace” (1979), “La verità come forza della pace” (1980), “Per servire la pace, rispetta la libertà” (1981), per passare poi, poco a poco ad altri aspetti, come nel 1991, “Se vuoi la pace, rispetta la coscienza di ogni uomo”, e nel 1992 “I credenti uniti nella costruzione della pace”.
Grande eco ebbero poi gli ultimi due messaggi, quello del 2002, riguardante direttamente i drammi attuali: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Quello di quest’anno, 2003, ha suggellato i messaggi anteriori, con il grande tema: “Pacem in terris: un impegno permanente”.
Presto uscirà una raccolta di tutti questi 25 messaggi, rivolti ai cattolici ed a tutti gli uomini di buona volontà. Sono messaggi che costituiscono quasi un sillabario cristiano della pace, che solo può esistere se si rispetta pienamente l’ordine stabilito da Dio per gli uomini e per i popoli.
Un secondo filone del magistero di Giovanni Paolo II è dato dai suoi discorsi al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede. Come è noto, all’inizio di ogni anno, il Papa, di fronte agli Ambasciatori degli Stati qui rappresentati, traccia alcune grandi linee d’azione, per contribuire alla pacifica convivenza internazionale.
Sono discorsi che mettono in rilievo l’ansia del Pastore della Chiesa universale, per contribuire a promuovere la pace, la giustizia e la solidarietà fra le Nazioni.
Il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ne ha già curato felicemente una raccolta, in un recente volume intitolato Giovanni Paolo II e la famiglia dei popoli (Editrice Vaticana, 2002).
È importante notare che, in tali discorsi, il Papa si rivolge non solo agli Stati, ma, tramite essi, alle Nazioni ed ai popoli. Certo la sovranità in senso politico è degli Stati, ma essa emana da una sovranità morale e culturale, che appartiene alle Nazioni e che deriva dalla loro storia e dalla loro cultura, e, in ultima analisi, dalla sovranità della persona umana.
6. Le iniziative pratiche
In questi 25 anni di Pontificato, insieme al magistero del Papa, si collocano numerose iniziative pratiche, per favorire nel mondo una nuova era di pace. Qui si inserisce l’opera della sua Segreteria di Stato e delle Rappresentanze Pontificie sparse per il mondo. Ma qui si inserisce, in primo luogo, l’opera personale del Sommo Pontefice. Fra tali iniziative possiamo citare i suoi viaggi internazionali, con contatti personali con Capi di Stato e di Governo, con uomini di cultura ed esponenti vari della società civile, perfino con messaggi ai Parlamenti Nazionali.
In 102 viaggi fuori dell’Italia, il Papa ha visitato ben 129 Paesi: io stesso ho avuto la gioia di accompagnarlo in 51 di tali viaggi, ed ho personalmente potuto costatare come essi abbiano influito in tanti uomini di buona volontà, per portarli ad un impegno più concreto a favore della concordia fra i popoli.
Fra tali visite, particolare importanza hanno assunto quelle effettuate alle Nazioni Unite a New York, ed alle varie Istituzioni dell’ONU, l’UNESCO a Parigi, la FAO a Roma, i vari organismi specializzati a Ginevra. Importante è stato anche il messaggio portato all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a Strasburgo, l’8 settembre 1988, come quello alla Commissione ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Ancora una volta, il Papa di fronte a quell’eletta Assemblea proclamava solennemente che i diritti degli uomini “precedono gli Stati, che hanno la responsabilità di vegliare affinché vengano rispettati.” Sono diritti sottolineava il Papa che “trascendono gli stessi confini nazionali” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, vol. XI, 3, pagg. 1080-83).
Per mantenere i contatti con i responsabili delle Nazioni, il Papa Giovanni Paolo II ha poi favorito l’istituzione di nuove Nunziature Apostoliche, viste come vere case del dialogo internazionale. Basti pensare a quelle sorte nell’Europa centrale, nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica e nei Balcani. Là ove fino al 1989 non v’era alcuna presenza ufficiale della Santa Sede, sono state istituite ben 26 Rappresentanze Pontificie: da Vilnius a Tirana.
Gli Stati che hanno allacciato relazioni diplomatiche con la Santa Sede durante questi 25 anni di Pontificato di Giovanni Paolo II sono ben 82, che si aggiungono ai 92 precedenti, cosicché oggi sono 174 i Paesi con cui la Santa Sede mantiene relazioni ufficiali. Sono canali che sempre si rivelano utili per favorire la collaborazione internazionale.
7. Focolai di guerra
Parlando di iniziative pratiche per contribuire alla pace nel mondo, ci si potrebbe poi soffermare su qualche caso specifico, anche se è ben difficile fare una scelta. Per la brevità di quest’esposizione mi limiterò ad accennare all’opera del Papa per quattro aree tipiche, a tutti ben note: la Terra Santa, i Balcani, l’Africa Centrale e l’Iraq.
So bene che vi sono stati molti altri casi, in cui si è dispiegata l’opera della Santa Sede. Ricordo, in particolare, alcuni conflitti sorti in America Latina, che personalmente ho sempre seguito da vicino.
Tra questi vorrei ricordare il pericolo di guerra che era scoppiato fra Argentina e Cile alla fine del 1979, ma che poi si riuscì ad evitare con la nota mediazione di Giovanni Paolo II. Si trattava dell’annosa controversia relative al Canale del Beagle, all’estremità australe dei due Paesi. Con l’opera paziente del compianto Card. Samoré, i due Governi interessati, di Buenos Aires e di Santiago, furono invitati a superare gli opposti schieramenti.
L’opera di mediazione fu lunga e paziente, ma dopo ben quattro anni di trattative, si poté firmare a Roma, il 18 ottobre 1984, un Trattato di pace e di amicizia fra Argentina e Cile, che ancor oggi felicemente continua e si sviluppa ognor più.
8. Per la pace in Terra Santa
Come è noto, l’attuale grave tensione esistente fra Israeliani e Palestinesi è iniziata con la costituzione dello Stato di Israele nel 1948 e si è poi aggravata con la guerra del 1967, la nota guerra dei sei giorni che sconvolse gli equilibri nel Medio Oriente.
Quando Giovanni Paolo II giunse al Soglio di Pietro, si trovò di fronte ad una situazione dolorosa, che poi è continuata in tutti questi 25 anni del suo Pontificato. Il Papa per tutti questo difficile periodo storico ha mantenuto stretti contatti con le Parti in causa ed ha poi preso numerose iniziative, che qui sarebbe lungo descrivere. In sintesi, la posizione della Santa Sede si può sintetizzare nei punti seguenti:
1) le risoluzioni dell’ONU vanno rispettate, ed in particolare la nota risoluzione 242 del 22 novembre 1967, relativa al ritiro di Israele “from occupied territories
2) i due popoli, l’israeliano e il palestinese, hanno diritto ad un proprio Stato, con confini ben definiti;
3) la città di Gerusalemme deve godere di uno statuto speciale internazionalmente garantito;
4) il dramma umanitario dei profughi palestinesi deve essere risolto, secondo i principi della giustizia e della solidarietà internazionale.
Nel Grande Giubileo del 2000, il Santo Padre ha poi voluto compiere una visita in Terra Santa ed in tale occasione ha richiamato le Parti in causa a ritrovare un cammino di riconciliazione e di pace.
“In quest’area del mondo ha affermato il Pontefice all’inizio di quel pellegrinaggio giubilare vi sono gravi e urgenti questioni concernenti la giustizia, i diritti dei popoli e delle nazioni, che devono essere risolte per il bene di tutti coloro che sono coinvolti e come condizione per una pace duratura. Per quanto difficile, per quanto lungo, il processo di ricerca della pace deve continuare. Senza pace, non vi può essere uno sviluppo autentico per questa regione, né una vita migliore dei suoi popoli. Costruire un futuro di pace richiede una sempre più matura comprensione e una sempre più pratica cooperazione fra i popoli che riconoscono l’unico, il vero, indivisibile Dio, il Creatore di tutto ciò che esiste. Le tre storiche religioni monoteistiche includono la pace, il bene e il rispetto per la persona umana tra i loro importanti valori” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, vol. XXIII, 1, pag. 388).
Già in questo discorso il Santo Padre si è rivelato, come sottolineerà qualche giorno più tardi un settimanale inglese, The Economist (25 marzo 2000, pag. 47), “un Papa per tutti i popoli” capace di portare “messaggi distinti alla Terra Santa per i suoi inquieti ascoltatori ebrei, musulmani e cristiani e tutti sono stati lieti di ascoltarlo”. Arrivando all’eliporto di Betlemme, Giovanni Paolo II ha ripreso il tema della pace e della giustizia, affermando: “Il messaggio di Betlemme è la Buona Novella della riconciliazione fra gli uomini, della pace ad ogni livello delle relazioni fra individui e nazioni. Betlemme è il crocevia universale” per realizzare l’avvento di un mondo degno dell’uomo. Quindi, invocando “pace per il popolo palestinese! Pace per tutti i popoli della regione!”, il Santo Padre ha ricordato come “la Santa Sede ha sempre riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto naturale ad avere una patria (a homeland) e il diritto di poter vivere in pace e tranquillità con gli altri popoli di quest’area” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, vol. XXIII, 1, pag. 407).
A Gerusalemme, incontrando le autorità sia civili sia religiose dello Stato di Israele, il Santo Padre con le parole e con i gesti ha compiuto opera di pace e di riconciliazione, affermando, per esempio: “La Chiesa condanna l’antisemitismo e ogni forma di razzismo perché in contrasto con i princìpi del cristianesimo”; “La storia, come dicevano gli antichi, è magistra vitae, maestra di vita. È per questo che dobbiamo essere decisi a guarire le ferite del passato, affinché non si riaprano più. Dobbiamo operare per una nuova era di riconciliazione e di pace fra gli ebrei e i cristiani. La mia visita costituisce il pegno che la Chiesa Cattolica farà tutto il possibile per garantire che questo non sia solo un sogno, ma una realtà”. E visitando il memoriale della Shoah, Giovanni Paolo II ha detto, tra l’altro: “La Chiesa rifiuta ogni forma di razzismo come una negazione dell’immagine del Creatore intrinseca a ogni essere umano (cfr Gn 1,26)”; quindi, auspicando un rapporto nuovo tra cristiani ed ebrei, egli affermava: “Mai più sentimenti antiebraici fra i cristiani o sentimenti anticristiani fra gli ebrei, ma piuttosto il reciproco rispetto richiesto a coloro che adorano l’unico Creatore e Signore” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, vol. XXIII, 1, pag. 439).
Appartengono ormai alla storia i gesti di altissimo valore simbolico con cui Giovanni Paolo II ha accompagnato le sue parole di pace fra i popoli della Terra Santa con la sua testimonianza personale, con l’esempio della sua stessa persona; con umiltà, con rispetto e con spirito di dialogo egli ha visitato i luoghi simbolo dei due popoli in lotta, dei palestinesi e degli israeliani, ossia: il campo profughi palestinese Deheisheh, il Mausoleo Yad Vashem (memoria dell’Olocausto), come anche la Spianata delle Moschee o del Tempio, il Muro Occidentale (il cosiddetto Muro del Pianto). Nello stesso tempo, come fa la Santa Sede ormai da un cinquantennio, Giovanni Paolo II non si è stancato di riproporre all’attenzione sia delle parti oggi ancora in conflitto, israeliani e palestinesi, sia alle Istituzioni Internazionali, la necessità di riconoscere a Gerusalemme, città simbolo della pace, uno statuto speciale internazionalmente garantito: “Con ragionevolezza,” ha affermato il Santo Padre nel discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11 gennaio 1999), “non è ormai più possibile rinviare la questione dello statuto della Città Santa di Gerusalemme, verso la qual i credenti delle tre religioni monoteistiche volgono il loro sguardo. Le parti interessate devono affrontare questi problemi con un senso acuto delle loro responsabilità” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, vol. XXII, 1, pag. 37).
9. Per la pace nel Balcani
Un secondo momento importante dell’azione del Papa per la pace è costituito dalla sua opera per la pace nei Balcani.
Sin dall’inizio della crisi nella ex Iugoslavia, scoppiata a seguito delle elezioni politiche del 1990, prima con la guerra aperta in Croazia (1991) e subito dopo con l’altra devastante guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992), il Papa ha richiamato con vigore princìpi etici e giuridici ormai consolidati nel diritto internazionale: da una parte, la Croazia e la Slovenia avevano il diritto a scegliere il loro destino, riconosciuto dalla stessa Costituzione della Repubblica Federale di Jugoslavia, e, d’altra parte, il Governo dei Belgrado aveva il diritto di seguire tale situazione, senza però ricorrere all’uso delle armi contro le proprie popolazioni. La guerra insistette sempre la Santa Sede non può essere mai considerata un mezzo del risolvere le controversie tra i popoli.
Già all’inizio di questa gravissima crisi politica scoppiata nel cuore dell’Europa e che ben presto ha assunto i connotati di una guerra a fondo etnico, Giovanni Paolo II è intervenuto con grande vigore per richiamare il rispetto dei diritti di ogni persona e di ogni comunità nazionale. Egli ha poi richiamato i Responsabili delle diverse Repubbliche della ex Federazione iugoslava alla ricerca di soluzioni giuste e pacifiche per rispondere alle legittime aspirazioni dei popoli della ex Iugoslavia. Ma il Santo Padre, ben consapevole che in quella situazione esplosiva era fondamentale un’opera di pacificazione degli animi, curando le ferite dell’odio e della contrapposizione a sfondo etnico e religioso, molte volte si è rivolto direttamente a tutti i credenti in Dio e ai Capi religiosi delle tre comunità presenti nelle diverse Repubbliche della regione balcanica, ossia le comunità cattoliche, ortodosse e musulmane. Soltanto nello spazio di poco più di un anno dal 30 gennaio 1991 al 13 gennaio de 1992, il Santo Padre è intervenuto ben 37 volte sulla prima fase delle crisi iugoslava.
“In questi momenti drammatici di sofferenza e di angoscia in alcune parti del mondo, e anche nella vostra Patria affermava Giovanni Paolo II il 30 gennaio 1991, allo scoppio della crisi, rivolgendosi a un gruppo di pellegrini della Croazia, presenti all’udienza generale , vi invito alla preghiera a Dio per la pace, per il rifiuto della tentazione della sfiducia e della rivalità, per il rispetto dei diritti umani fondamentali, per il rispetto della dignità e dei diritti dei popoli. Verso il futuro conducono infatti il rispetto reciproco, il dialogo e le trattative sui punti controversi, la collaborazione e la solidarietà” (La crisi jugoslava. Posizione e azione della Santa Sede (1991-1992), Quaderni de L’Osservatore Romano, n. 18, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1992, pag. 29). Un fermo richiamo a sospendere l’uso della forza, creando condizioni per la ripresa del dialogo il Santo Padre lo esprimeva in tre messaggi inviati, il 28 giugno 1991, rispettivamente al Presidente del Consiglio Federale della Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia, Ante Marković, al Presidente della Repubblica di Croazia, Franjo Tudjman, e al Presidente della Repubblica di Slovenia (ibid., pagg. 32-34). Alla Preghiera dell’Angelus di domenica 21 luglio, dal Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, ribadendo la necessità di “promuovere un movimento di pacificazione tra le popolazioni serba e croata”, il Pontefice affermava con molta chiarezza e lungimiranza: “Uno scontro armato di più ampie proporzioni tra questi due popoli sarebbe, infatti,
Al fine di evitare tali mali si possono ricordare, tra le molte, almeno altre due iniziative del Santo Padre, ossia la sua lunga e fraterna lettera inviata a Sua Beatitudine Pavle, Patriarca della Chiesa Ortodossa Serba, e l’indizione dell’incontro di preghiera e di digiuno ad Assisi (9-10 gennaio 1993), “per invocare la pace in Europa e in particolare nei Balcani”.
Come già durante la guerra in Bosnia con le sue tragiche vicende della “pulizia etnica”, così pure allorché l’analogo e spaventoso conflitto ha coinvolto il Kosovo, Giovanni Paolo II non smesso di elevare la sua voce per richiamare le parti alla ragione. Per esempio, il 22 aprile 1999, ricevendo nella Sala del Concistoro una qualificata rappresentanza di Premi Nobel per la Pace, egli ha affermato: “Come potremmo non rinnovare un vigoroso appello per la fine dei conflitti etnici nei Balcani e dello scontro armato, per il ritorno del dialogo e del rispetto per la dignità di tutte le persone e di tutte le comunità, nel nome dei diritti umani fondamentali!” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, 1999, vol. XXII, 1, pag. 803).
Qualche giorno prima (18 aprile 1999), Giovanni Paolo II aveva scritto una lettera personale ad Alessio II, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, in procinto di recarsi a Belgrado (20 aprile). Esprimendo la propria solidarietà per tutte le vittime del conflitto e assicurando la propria preghiera per la pace, il Papa affermava: “È dovere di tutti coloro che professano il Vangelo della Pace di proclamare con voce unanime che ogni sorta di violenza, di pulizia etnica, di deportazione delle popolazioni e l’esclusione dei popoli dalla vita sociale non possono essere considerati come mezzi per giungere a soluzioni civili circa i problemi che non possono essere risolti se non dalle procedure rispettose della legge, troppo spesso, la violenza sembra essere la formula più facile per risolvere situazioni difficili” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Ed. Vaticana, 1999, vol. XXII, 1, pag. 774).
Due anni prima, il Santo Padre aveva visitato
Nello stesso spirito di “pellegrino di pace”, proprio della figura evangelica del “buon pastore” sollecito a curare le ferite del suo gregge, il Santo Padre visitò ancor ultimamente la Croazia (2-9 giugno 2003). Già anteriormente aveva visitato la Slovenia (maggio 1996 e settembre 1999).
10. Per la pace nell’Africa centrale
Un terzo scenario internazionale, verso il quale si è diretta l’opera pacificatrice di Giovanni Paolo II, è costituito dall’Africa centrale. In realtà, uno dei più gravi problemi che ha sconvolto il continente africano soprattutto in quest’ultimo decennio è stato quello dei conflitti a sfondo etnico nella regione dei Grandi Laghi (Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo [Zaire]). L’orrore della guerra fratricida tra tutsi e hutu è iniziata il 7 aprile 1994, all’indomani dell’uccisione dei Presidenti del Ruanda e del Burundi. La guerra, purtroppo fatta anche da gruppi in gran parte cristiani, ha causato
Nella stessa esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa, pubblicata il 14 settembre 1995, Giovanni Paolo II ha espresso tutta la sua preoccupazione per la tragedia della guerra che stava dilaniando l’Africa. Con gli stessi Padri del Sinodo Speciale per l’Africa, il Pontefice ha dovuto rilevare che il continente “è da parecchi decenni il teatro di guerre fratricide, che decimano le popolazioni e distruggono le loro ricchezze naturali e culturali”. “Il dolorosissimo fenomeno” aggiungeva il Papa , “oltre a cause esterne all’Africa, ha pure cause interne, quali il tribalismo, il nepotismo, il razzismo, l’intolleranza religiosa, la sete di potere, spinta all’estremo nei regimi totalitari che deridono impunemente i diritti e la dignità dell’uomo. Le popolazioni beffate e ridotte al silenzio, subiscono, quali vittime innocente e rassegnate, tutte queste situazioni d’ingiustizia'”. Tra le cause esterne’ che hanno alimentato la tragedia africana delle guerre fratricide, la Ecclesia in Africa di Giovanni Paolo II indica chiaramente anche
Tra i moltissimi altri interventi di Giovanni Paolo II circa il dramma delle popolazioni dell’Africa Centrale, costretto dalla brevità del tempo, ne posso ricordare altri tre. Il 12 dicembre 1996, quando la situazione si era fatta particolarmente grave e devastante nella provincia del Kivu (Zaire orientale), dove centinaia di migliaia di profughi erano «perduti» nelle foreste inospitali della regione dei Grandi Laghi, ricevendo 11 nuovi ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, tra cui il nuovo rappresentante del Ruanda, il Santo Padre ribadiva “l’urgente necessità” di adoperarsi nella ricostruzione del travagliato Paese africano.
Poco più di 20 giorni dopo, a conclusione della solenne celebrazione eucaristica della solennità del Natale del Signore, nel Messaggio Urbi et Orbi, il Papa diceva: “Proprio nel suo cuore, nella regione dei Grandi Laghi, questo giovane continente sta vivendo, tra l’indifferenza generale della comunità internazionale, uno di drammi umanitari più crudeli della sua storia. Migliaia e migliaia di persone sono nostri fratelli e sorelle , vagano in preda alla paura, alla fame e alle malattie e, ahimè, non potranno gustare la gioia del Natale. Nessuno può restare tranquillo di fronte a questo scandalo, che parole e immagini solo pallidamente riescono a evocare. Rassegnarsi a simile violenza e ingiustizia sarebbe un rifiuto troppo grave della gioia e della speranza che il Natale ci reca. Dio si fa uomo e ripete che è possibile vincere l’odio, che è bello amarsi come fratelli e sorelle”
In sintesi, nel caso africano l’opera del Papa è stata quella di richiamare tutti i popoli interessati ad abbandonare la via dell’odio, facendo poi appello alla comunità internazionale perché aiuti quel Continente a riprendere un cammino di pacifica convivenza.
11. Per la pace in Iraq
In questa sintetica presentazione dell’opera svolta dal Papa al servizio della pace, sia direttamente sia con l’intervento di suoi collaboratori, vorrei infine illustrare brevemente quanto sia stato fatto per cercare di prevenire il recente conflitto in Iraq e per affrettarne poi la conclusione, una volta scoppiate le ostilità.
Puntuale e insistente è stata l’azione del Santo Padre per prevenire e scongiurare questo secondo conflitto in Iraq, avvenuto nella primavera scorsa e ancora ben lontano dalla pacificazione. Giovanni Paolo II ha seguito giorno per giorno l’evolversi della situazione. Con coraggio profetico egli ha tentato anche la mediazione diretta inviando, come suoi rappresentanti personali, il cardinale Roger Etchegaray a Baghdad e il cardinale Pio Laghi a Washington per portare dei Messaggi di pace ai rispettivi Presidenti Saddam Hussein e Georges W. Bush, invitandoli, a riflettere, davanti a Dio e davanti alla propria coscienza, sulle possibili vie di soluzione del contenzioso, per salvaguardare il bene primario della pace fondata sulla giustizia e sul diritto internazionale.
Il deciso “No” alla guerra, in quanto tale, Giovanni Paolo II lo ha ribadito anche nel suo discorso di questo inizio d’anno rivolto ai rappresentanti del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede e ricevuti in udienza nella Sala Clementina (13 gennaio 2003), per il tradizionale scambio di auguri per il nuovo anno. “La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre
Lo sviluppo degli eventi è fin troppo noto per essere qui ricordato. Nella notte dello scorso 20 marzo, iniziavano i bombardamenti su Baghdad. La “follia della guerra” dispiegava tutta la sua forza devastatrice. Quella notte di marzo 2003 faceva segnare “un giorno triste” per il mondo. Il dolore del Santo Padre, per aver “bruciato” il residuo spazio per la pace, traspariva tutto nella dichiarazione della Sala Stampa Vaticana, emesso il 20 marzo:
“La Santa Sede ha appreso con profondo dolore l’evolversi degli ultimi eventi in Iraq. Da una parte, lamenta che il Governo iracheno non abbia accolto le risoluzioni delle Nazioni Unite e lo stesso appello del Papa, che chiedevano un disarmo del Paese. Dall’altra parte, deplora che si sia interrotta la via delle trattative, secondo il Diritto Internazionale, per una soluzione pacifica del dramma iracheno. In tale situazione si è appreso con soddisfazione che le varie istituzioni cattoliche in Iraq continuano a svolgere le loro attività di assistenza a quelle popolazioni. Per contribuire a quest’opera di solidarietà, anche la Nunziatura Apostolica, retta dall’Arcivescovo Mons. Fernando Filoni, rimarrà aperta in questo periodo, nella sua sede di Baghdad”.
Sono passati sei mesi dalla fine del conflitto e lo sviluppo degli eventi in Iraq sta dimostrando che se è facile vincere la guerra, non altrettanto facile è vincere la causa della pace e della giustizia. Resta però un fatto degno di nota, che molti attenti osservatori della politica internazionale hanno messo in risalto: i ripetuti, meditati e appassionati interventi del Santo Padre contro la guerra in Iraq hanno fatto sì che essa, anche all’interno dei popoli arabi o aderenti all’Islam, non fosse percepita come una “guerra” dei cristiani contro i musulmani, e che non si è trattato affatto di una guerra di religione dell’Occidente contro il mondo musulmano.
12. Conclusione
Il Papa in questi 25 anni di Pontificato ha sempre proclamato al mondo il Vangelo della pace ed ha poi lavorato concretamente per tradurlo in pratica. Nella mia relazione, ho accennato all’opera del Papa di fronte a quattro gravi focolai di guerre. Avrei potuto citare le iniziative prese di fronte a tanti altri conflitti. Nella rivista La Civiltà Cattolica è apparso recentemente un articolo intitolato “Le guerre dimenticate” (La Civiltà Cattolica, 2003, III, 498-498). Ivi si citano una ventina di conflitti preoccupanti, nei vari Continenti. Forse sono guerre dimenticate dall’opinione pubblica, ma non dalla Chiesa. A tutti la Chiesa ripete attraverso la voce del Papa: “Opus iustitiae pax” ed ancor più “Opus amoris pax“! Per questo la Chiesa lavora ogni giorno. Per questo prega il Signore, con le parole della liturgia: “Domine, dona nobis pacem“!
(fonte: www.vatican.va)