Opinioni & Commenti
11 settembre, sette anni dopo il mondo non è più sicuro
di Romanello Cantini
Sette anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle non c’è ancora nessuno che si vanti di aver vinto la cosiddetta «guerra al terrorismo». Il mondo, ma solo quello occidentale, è appena un po’ più sicuro. Dopo gli aerei che sette anni fa piombarono come palle di fuoco su New York, gli Stati Uniti non hanno più subito attentati, anche se sono in molti a lamentare come questa immunità dell’America sia stata pagata con notevoli strappi ai diritti umani o alla libertà delle persone. Anche in Europa, dopo gli attentati in Spagna e in Gran Bretagna del 2004 e del 2005 a cui si potrebbero aggiungere le stragi in Russia dello stesso periodo, negli ultimi tre anni il terrorismo è stato messo in condizione di non nuocere.
Nella lotta contro il terrorismo la prevenzione sembra più efficace della repressione, mentre l’affinamento e la collaborazione nei mezzi di salvaguardia e d’indagine sembrano aver raggiunto risultati importanti nel contenere le azioni più spettacolari, anche se questa pausa di respiro non vale per il resto del mondo, dall’Egitto all’India, al Pakistan, dove gli attentati sono ancora possibili e sono sempre più sanguinosi.
Ma se la lotta contro il terrorismo ha conseguito dei successi laddove si è posta obiettivi difensivi, i risultati positivi sono ancora molto lontani quando si è creduto di andare a cercare il terrorismo in casa propria. In questi casi ci si è inventati anche dei bersagli di comodo perché c’era bisogno di dare al terrorismo un recapito, che per natura non ha, e perché si doveva fare una guerra classica, che è l’unica che le superpotenze sanno fare. Così la guerra al terrorismo è diventata la guerra a un territorio e a uno Stato. In Afghanistan, tipica guerra asimmetrica, dove alle bombe umane che esplodono a bruciapelo si risponde con le bombe lanciate da migliaia di metri di altezza con le conseguenti stragi di civili, chiamati sbrigativamente “danni collaterali”, la violenza cresce anziché diminuire. Il 2007, con i suoi seimila morti, è stato l’anno più sanguinoso da quando la guerra è iniziata sette anni fa. È da sottolineare che centoventimila soldati fra forze della Nato e militari governativi non riescono ancora ad avere ragione di diecimila talebani.
In Iraq, nel corso degli ultimi mesi, la situazione è migliorata. Le vittime della guerra sono state nei primi mesi di quest’anno inferiori di due terzi a quelle dell’anno precedente. Tuttavia, anche qui appare ancora lontana la fine di una guerra che ha fatto quattromila morti fra i soldati americani e quasi duecentomila morti fra gli iracheni, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità. C’è chi ha calcolato che il costo delle due guerre, ormai più di mille miliardi di dollari, è equivalente al costo della costruzione di otto milioni di appartamenti secondo i prezzi americani, cioè, in pratica, ai capitali sufficienti a dare la casa ad una nazione intera.
In Iraq, dramma nel dramma è la grande diaspora dei cristiani sottoposti a intimidazioni e a vessazioni sempre più persecutorie. Ormai metà dei settecentomila cristiani dell’Iraq sono fuggiti all’estero, in gran parte nel Libano, in Giordania, in Siria e in Turchia. Molte chiese sono state fatte saltare in aria. La Facoltà di teologia di Baghdad si è dovuta trasferire ad Erbil. Il seminario di Mossul è stato chiuso.
Ma, al di là di queste guerre interminabili, il fondamentalismo islamico, di cui la persecuzione dei cristiani è anche altrove un riflesso, non sembra proprio in ritirata. Nel 1997 gli iraniani avevano votato per il moderato Khatami. Nel 2005 hanno votato per l’ultraradicale Ahmadinejad. E l’Iran fondamentalista tende a controllare l’Iraq attraverso la comune fede sciita, a governare il Libano attraverso gli hezbollah filoiraniani ormai padroni del Paese, a tenere in mano la Palestina attraverso l’organizzazione fedele di Hamas. L’Iran fondamentalista può ormai proporsi come la potenza più influente del Medio Oriente. Anche in Egitto, nelle ultime elezioni legislative, i fratelli musulmani hanno triplicato i loro seggi. La Somalia è ormai in mano all’organizzazione dei tribunali islamici.
La lotta al terrorismo, che si fonda sulla forza, ha un costo altissimo con risultati che sono molto miseri e soprattutto incerti, visto che si fanno attendere tanto. La delusione legata a questa scelta è ben rappresentata dalla parabola discendente del presidente Bush, che più ha creduto nella risposta militare e che da un gradimento del settanta per cento degli americani all’indomani dell’11 settembre è sceso oggi a poco più del venti per cento di consensi. Il fondamentalismo è pur sempre un fenomeno culturale, seppur riprovevole. La forza può forse trattenerlo, ma mai sradicarlo. Perfino dare a Bin Laden una caccia che dura più di una guerra mondiale è un’operazione tanto accanita quanto misera finché rimangono in giro migliaia di Bin Laden candidati a prendere il suo posto. Nell’epoca delle comunicazioni di massa il terrorismo dev’essere combattuto con le comunicazioni di massa. Dev’essere isolato con il dialogo anziché renderlo rappresentativo dell’Islam con le condanne sommarie, per cui ogni musulmano è un fondamentalista. Dev’essere minato dall’interno con il sostegno a chi nel mondo islamico lo respinge. E dev’essere disseccato nelle sue sorgenti cercando di affrontare i drammi reali che lo alimentano, al di là dei fanatismi.