Cultura & Società
11 settembre, nove anni dopo «risposte zero»
di Franco Cardini
Quando si tiene una rubrica di storica a carattere periodico, si è perseguitati da uno spauracchio: quello degli anniversari. La storia per anniversari è una delle più noiose, delle più banali e delle più cretine che si possano immaginare: eppure, è inevitabile e inaggirabile. Se ti arriva fra capo e collo un anniversario e non ne parli, non lo «celebri» (o magari, sia pure, non lo fai a pezzi), i casi sono due: o anche gli altri si comportano come te ma è difficile e allora cadi sia pur senza volerlo nello squallore del conformismo; o sei l’unico a tacere, e allora ti esponi a penosi e ridicoli processi alle intenzioni.
Siamo al nono anniversario del Nine Eleventh, il duplice attentato che nel 2001 colpì le Twin Towers di New York e l’edificio del Pentagono a Washington; e che, secondo alcuni ricercatori e alcuni indizi, avrebbe potuto essere addirittura un triplice attentato, in quanto sembra ci fosse un altro velivolo sospetto in giro (poi misteriosamente scomparso) e quindi un altro obiettivo da colpire. Fra un anno celebreremo il decennale di quello spaventoso evento, che nei giorni scorsi è tornato a far parlare di sé a proposito dell’ipotesi che sul luogo dove sorgevano i due grattacieli newyorkesi, il Ground Zero, possa sorgere una moschea. La cosa ha indotto qualcuno a una dura protesta: nessun edificio di culto musulmano può profanare un’area nella quale furono proprio dei musulmani a seminare lutto e distruzione. Qualcun altro ha obiettato però che vi furono dei musulmani anche tra le vittime e che ormai le condizioni e le circostanze da allora sono cambiate. Oggi, il presidente degli Stati Uniti d’America è un cittadino d’origine africana nella famiglia del quale vi sono tradizioni musulmane.
Ma l’aspetto spiacevole di tutta la questione non è il profilo, in fondo piuttosto basso, di questa polemica. Il punto è che va registrata una straordinaria contraddizione tra il permanere delle conseguenze di quell’attentato (la guerra in Afghanistan, originata si disse dal rifiuto del governo talebano di allora di consegnare il presunto mandante dell’attentato; la guerra in Iraq, causata dalla necessità si ribadì di proseguire la guerra contro il terrorismo; l’inquietante e imbarazzante perdurare dell’istituzione carceraria di Guantanamo, nonostante da più parti se ne sia notata l’illegittimità sul piano del diritto internazionale) e il silenzio ufficiale che è sceso su un episodio rispetto al quale si è oggi ancora lontani dall’aver fatto piena luce mentre le autorità statunitensi e gran parte dei mass media sostengono il contrario o, addirittura, tacciono. Il risultato di questo silenzio è però, per molti versi, l’oblìo. Una recente inchiesta ha rivelato che la stragrande maggioranza dei ragazzi statunitensi ignorano il senso della data 11 settembre o comunque non sono in grado di esporne con qualche ragionevole approssimazione l’accaduto e tantomeno di ricavarvi un senso. In Europa, tale percentuale è forse ancora più forte.
Ma lo scandalo maggiore e il motivo di preoccupazione forse più forte stanno nel fatto che una disinformazione plumbea e quasi totale regni attorno al pesante, durissimo contenzioso che ancora esiste negli States tra il governo federale e i sodalizi che raccolgono le famiglie delle vittime che si dichiarano insoddisfatte delle risposte ricevute e che in passato si cercò anche di mettere a tacere offrendo loro un risarcimento di una certa entità a patto che rinunziassero non solo a ulteriori pretese, ma soprattutto a pretendere approfondimenti nella ricerca della verità. Come se ci fossero, quanto meno, gravi errori e pesanti responsabilità da coprire, da nascondere. I dossiers prodotti da quanti non si accontentano della ricostruzione ufficiale sono diventati enormi: da parte ufficiale, si è ormai da tempo cessato perfino di cercar di confutarne le argomentazioni. Ci si limita a condannarli come «negazionisti» (in quanto «negherebbero», o quanto meno criticherebbero e contesterebbero, la veridicità della ricostruzione ufficiale e l’effettiva responsabilità delle persone accusate) oppure, addirittura, a tacere. Un silenzio che fino a qualche tempo fa voleva apparire sdegnoso, mentre era soltanto imbarazzato; ma che ormai è divenuto prassi strategica istituzionalizzata. Nella società dello spettacolo, non parlare di qualcosa equivale a farlo scomparire.
Eppure, non è così. Si dice che dall’11 settembre del 2001 sia cominciata una nuova fase storica. Aperta, come sovente accade per le fasi storiche, da una nuova guerra. Quella «contro il Terrore», che riguarda anche noi, e nella quale anche noi siamo stati e restiamo coinvolti. Anche nel nostro Bel Paese, qui tra noialtri Italiani Brava Gente, ci sono ormai decine di famiglie (ancora poche, per fortuna) che piangono il loro ragazzo rimasto là, tra sabbie e rocce d’un paese lontano o sul cemento ardente e crepato d’una città-fantasma, tra le macerie e i rifiuti. «Caduti», si dice: non morti, nemmeno vittime. Erano soldati. I soldati muoiono perché ciò fa parte del loro dovere: «La morte è un atto di servizio», diceva José Antonio Primo de Rivera, questo meraviglioso guerriero cristiano che ci credeva sul serio, e lo dimostrò morendo (mentre i Bush, i Cheney e i Rumsfeld, gli architetti dell’aggressione prima all’Afghanistan, quindi all’Iraq, sono rimasti al caldo delle loro sontuose residenze e dei loro ricchi profitti). I soldati muoiono, però, anche per qualcosa. Per che cosa, in questo caso?
Erano più di sessant’anni che a parte qualche caso isolato, in Congo o in Somalia l’esercito italiano non aveva più caduti; che madri, sorelle, fidanzate, mogli non piangevano più un ragazzo in divisa che non sarebbe mai tornato. «Caduti», certo: onore alla loro memoria. Ma caduti perché, per chi, per che cosa? Per la Patria, per la Libertà, per la Civiltà occidentale, per la Pace nel mondo, per gli Interessi nazionali, per gli interessi di qualcun altro, per quelli imprenditoriali di qualcuno, per che cosa? Tre anni fa, in occasione del sesto anniversario, assistei su non ricordo più che canale tv, al mesto confronto tra due parenti di due di quei ragazzi. Due donne. «Almeno riuscissi a capire se davvero tutto questo era necessario», diceva B.; «E perché, anche se davvero fosse stato necessario, ciò ti aiuterebbe a capire perché dovevi pagare proprio tu?», replicava L.; «Ma tu sei certa che queste cose, comunque, siano mai state davvero necessarie?», ribatteva B. Chi se la sente, signori politici, signori storici, signori opinion makers, di fornire una risposta esauriente alle domande di B. e di L.? Chi si prende il peso, il carico, la responsabilità dei loro due cari scomparsi? Chi oserà mai dir a quelle due donne in lutto che «ne valeva la pena»? O di ricordar loro che in fondo si trattava di soldati sì, ma volontari, che sapevano o avrebbero dovuto sapere i rischi ai quali andavano incontro e che quella era la professione lucrosa, peraltro che si erano scelti: non si possono paragonare i soldati volontari dietro alti ingaggi ai soldatini della prima e della seconda guerra mondiale, mandati a morire per forza oppure volontari sì, ma non certo e per il soprassoldo peraltro modesto che ai volontari si corrispondeva.
La risposte alla prima domanda non sono così semplici come certi politici e certi giornalisti si ostinano a credere o a volerci far credere. Proprio tre anni fa uscì contemporaneamente, in alcune sale cinematografiche e nelle librerie, un film coordinato dal gruppo «Progetto Megachip» e un libro edito dall’Editrice Piemme e coordinato da Giulietto Chiesa e da Roberto Vignoli. Il titolo del libro e del film è lo stesso, lapidario, inquietante: Zero. Zero come il Ground Zero, la tragica spianata che ancora oggi a Manhattan sta là dove prima sorgevano le due torri del CTO e altri edifici adiacenti. Zero come le certezze che sappiamo di possedere circa le responsabilità di quel tremendo 11 settembre del 2001, troppo presto proclamate con frettolosa sicumera e quindi oggetto di contestazioni e di polemiche a non finire: e non da parte dei soliti noiosi «negazionisti», ma soprattutto delle famiglie delle vittime, per nulla soddisfatte del trattamento che il governo statunitense ha loro riservato, né convinte dei risultati delle inchieste ufficiali e delle contraddittorie e lacunose versioni dei fatti che esse hanno fornito, né rassegnate a chiudere il caso (che, ricordiamolo, ha dato luogo a una sola condanna all’ergastolo di un solo presunto responsabile in seguito a un giudizio a dir poco precipitoso). Vero è che si sono ammessi errori, forme d’incompetenza, omissioni, casi d’inefficienza: troppo poco per convincerci che dietro all’arrogante reticenza delle autorità non ci sia qualcosa di più, e di peggio. Non è certo il caso di far del complottismo: Dio ce ne guardi. Semmai, si tratta proprio, al contrario, di smascherare l’ipotesi appunto complottistica travestita da realtà proclamata ai quattro venti mai però comprovata sulla base della quale, nel giro di meno di un mese, il governo Bush che prima dell’attentato non sembrava essere mai stato sfiorato al riguardo da alcun sospetto dichiarò di aver individuato con certezza responsabili materiali e mandanti e avviò la Strafexpedition contro l’Afghanistan dei talebani rei di non volergli consegnare il presunto Grande Capo del complotto, Osama bin Laden. Poiché questo è un paese dalla cortissima memoria, sarà utile forse ricordare che la colpevolezza di Bin Laden è fino ad oggi stata provata solo attraverso dichiarazioni che vengono presentate come da lui stesso fornite, attraverso videocassette di dubbia origine e di ancor più dubbia attendibilità. Una delle quali anzi, ritrovata in Afghanistan nel dicembre del 2001 e ritenuta fondamentale e decisiva, fu poi dimostrata falsa. E Bush, sia pur con reticenza, dovette ammetterne la falsità. Non parliamo poi di ulteriori videocassette, immediatamente prese per buone dalle autorità e dai servizi americani, che ci mostrano magari un Bin Laden stranamente ringiovanito e dalla fisionomia talvolta irriconoscibile. Come dice una canzone che in questi mesi ha avuto un certo successo, «Osama è ancora latitante l’ho visto ieri al ristorante».
L’11 settembre, in realtà, non ha inaugurato alcuna svolta storica. Essa c’era già stata fin dalla metà degli Anni Novanta, quando fra Turkmenistan e Kazakistan furono individuato nuovi, profondi e ricchissimi giacimenti di petrolio e di gas per il controllo e la gestione dei quali si è aperto un nuovo Great Game come quello anglo-russo dell’Ottocento per l’egemonia sull’Asia centrale. I protagonisti attuali di esso sono la superpotenza americana, le multinazionali in vario modo ad essa collegati e le nascenti o rinascenti potenze russa e cinese, cui si vanno affiancando le nuove potenze regionali dell’area, l’indiana e l’iraniana. Un Grande Gioco davvero: al quale tuttavia la nuova presidenza Obama non sembra aver apportato novità degne di nota o mutamenti effettivi. Il presidente parla, con dubbia coerenza, di «disimpegno» e al tempo stesso di «perseveranza» finché le forze «legittime» locali cioè quelle scaturite dalla nuova realtà politica e sociale imposta dagli occupanti, saranno in grado di «fare da sé». Fuor di metafora, tener duro finché la situazione geopolitica, economica e strategica non sia organizzata in modo da consentire una solida egemonia degli interessi delle imprese legate agli occupanti senza bisogno che siano i soldati o i contractors occidentali a garantirla.