Cultura & Società
1° novembre: i santi della porta accanto
Un approfondimento della festa di Ognissanti insieme alla contemplativa fiorentina Antonella Lumini: "Chissà quanti santi nascosti ogni giorno fanno miracoli che non vediamo".
La festa liturgica a cui tutti siamo chiamati, non solo per celebrarla ma, quando e come Dio vorrà, per essere tra i festeggiati. Potremo definire così il giorno di Ognissanti, o Tutti i Santi come più comunemente si dice, che per troppi, soprattutto giovani ma non solo, è dedicato soprattutto a smaltire i bagordi di Halloween, carnevale fuori stagione che prova a scherzare anche sulla morte, forse allo scopo di esorcizzarla. Il giorno dei Santi la riveste invece di nuova luce, presentandoci una dimensione di vita eterna e letizia alla presenza del Padre. Ma che rapporto possiamo avere con loro e come viviamo oggi la santità? Ne parliamo con Antonella Lumini, la contemplativa fiorentina nota come «eremita metropolitana», anche se lei preferisce essere definita “battezzata custode del silenzio”.
Antonella, che vuol dire essere santi oggi? C’è una differenza rispetto al passato?
«La santità è sempre la stessa, è opera dello Spirito Santo, il quale più agisce dove più trova apertura e disponibilità. Allo stesso tempo è sempre diversa perché si manifesta nelle forme adeguate a ogni tempo. Scrive Simone Weil: “Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige”, cioè recettiva delle potenzialità in atto che premono per realizzarsi. E ancora: “il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio”, capaci di cogliere i germi di nuove fioriture mentre vecchi assetti si stanno esaurendo».
Nella sua esperienza, esiste il «santo della porta accanto»?
«Traspaiono bagliori di santità in tante persone nascoste. Nella fragilità, nella fatica della vita ordinaria portano dolcezza, sorrisi, parole di incoraggiamento, con naturalezza. Senza neppure accorgersi fanno la differenza. Sono quei giusti inconsapevoli che, come dice la tradizione ebraica, salvano il mondo».
I santi sono spesso visti come eroi, ma è davvero così? Non c’è piuttosto da guardare a una santità del quotidiano, di cui magari nessuno sa niente, se non le persone che stanno più accanto a chi la vive?
«Il processo di canonizzazione in effetti richiede la pratica eroica delle virtù, ma non allude all’esaltazione della volontà soggettiva, estranea al senso evangelico delle beatitudini, tutte dentro la leggerezza della grazia che colma proprio chi è svuotato di sé. Riguarda la fermezza nella fede nonostante le prove. I santi non sanno mai di essere tali, più sono nella luce, più la luce mette a fuoco ogni più nascosta impurità. Questo li rende umili di quell’umiltà che favorisce l’azione dello Spirito, trasforma pensieri, azioni, desideri, manifestandosi nella vita di tutti i giorni che, certe volte, può implicare anche grandi azioni».
Sono molte le persone che venerano un santo in particolare. Lei come vive il rapporto con i santi?
«Ogni santo è portatore di una rifrangenza luminosa. Si intravedono in loro tratti che si riverberano nella nostra anima per suscitarla, risvegliarla. La loro umanità compiuta incoraggia, rafforza la fede, fa sperare perché sono uomini e donne come noi in cui l’amore è giunto a fioritura. Soprattutto sostiene la comunione dei santi, sentire di appartenere a questo immenso corpo luminoso che comprende i fedeli di tutti i tempi, anche i nostri cari defunti, abbraccia le nostre vite così come sono per rigenerarle nell’amore. Corpo luminoso che è il Regno, trasversale tra cielo e terra, visibile e invisibile insieme».
Da Tutti i Santi a Tutti Santi… è un gioco di parole, un’utopia o può essere una possibilità?
«Tutti siamo chiamati alla santità, più ci affidiamo, più diventiamo docili. San Paolo chiama santi i battezzati perché lo Spirito Santo santifica, libera dallo spirito del mondo. Aprirsi a Cristo, mantenere l’orientamento verso la sua luce, rarefà le oscurità dell’anima. Il battesimo chiede però una risposta, può rimane sterile come un seme caduto sulla strada. Al contrario, dove germinano atti di amore gratuito, compassione, c’è santità anche se non c’è battesimo. Come ancora afferma Simone Weil, c’è una fede implicita, inconsapevole. Il cuore è aperto allo Spirito e lo Spirito porta frutti di amore. Tutti custodiamo in noi il germe della santità che il Verbo incarnato è venuto a suscitare».
Si diventa santi da soli o con gli altri? Quanto conta la comunità dei credenti nella sua esperienza di eremita urbana?
«Solitudine e comunità sono due facce di una stessa medaglia. Non è pensabile una santità che non includa l’esperienza del solo a Solo. La solitudine è il luogo dell’incontro intimo con Cristo, sta alla base della preghiera esicasta, a fondamento del monachesimo che ha origine con gli anacoreti, ma riguarda tutti i credenti. La santità è nel mondo senza appartenere al mondo perché liberata dallo spirito del mondo. È il segno del Regno. La comunità diviene realmente comunità di credenti se al suo interno fluisce lo Spirito di Cristo, se ogni fedele ne mantiene viva la fiamma. Solo lasciandosi amare dallo Spirito che è amore, si impara ad amare. Le comunità cristiane troppo spesso sono dominate dai soliti automatismi delle comunità del mondo. Lo stare insieme a volte compensa la paura della solitudine più che trovare nella solitudine sostegno. La preghiera interiore pacificando e colmando l’anima, pacifica le relazioni, favorisce l’amicizia autentica».
In passato, ma non solo, ci sono stati anche i santi a furor di popolo. Oggi è ancora possibile? Come si riconosce la santità nelle persone?
«Forse oggi manca il popolo, c’è troppa frammentazione. C’è però una sensibilità diffusa verso la santità, c’è sete di santità. Chi la cerca la trova perché la riconosce. La santità si manifesta nella leggerezza, nella grazia, nell’umiltà, segni che contraddicono il mondo. Spesso i santi in vita sono perseguitati, vanno contro corrente, danno fastidio, sono riconosciuti tali solo dopo morti. Chissà quanti santi nascosti, ancora sulla terra o già in cielo, operano tanti piccoli o grandi miracoli di cui nessuno si accorge, guarigioni interiori che non fanno clamore».
E quali sono le caratteristiche di una persona per cui chi la conosce e le sta vicino può arrivare a esclamare che è un santo?
«Sono le beatitudini. Tutto quello che è estraneo alla forza. Povertà di spirito, mitezza, misericordia, purità di cuore, pace. La santità incarna il Verbo, è cristianesimo incarnato».
Esiste oggi anche una sorta di «santità laica»? Ci sono atteggiamenti e comportamenti accettati o apprezzati da molti che fanno di una persona un esempio, a prescindere dalla sua fede? «La santità è santità, si distingue per la qualità d’amore: “Amatevi come io vi ho amati”. Se c’è questa qualità d’amore c’è santità, c’è il Regno. Tante volte credere o non credere diviene un fatto ideologico. Chi dice di non credere, in realtà crede nel profondo. Lo Spirito penetra misteriosamente dove trova aperto. L’annuncio oltrepassa tutti i confini, il suo frutto è la santità e la santità è incarnazione dell’amore: perdono, misericordia, compassione verso ogni fragilità. Non sempre però i comportamenti più apprezzati sono conformi a questa qualità di amore».