Opinioni & Commenti
Restare umani accettando vecchiaia e malattia
Un «lui» over ottanta che non ce la fa più a vedere la sua «lei», di età analoga, ridotta in quelle condizioni: e allora la sopprime, l’ammazza, auto-giustificandosi con una sorta di «pietà» che genera, in noi lettori, un altro tipo di pietà. Pietà raddoppiate perché il «lui» aveva già progettato di uccidersi e un istante dopo aver ucciso si uccide (qualche volta – come successo di recente – il suicidio non riesce e allora chissà quali rimorsi). «Non ce la facevo più a vederla soffrire in quel modo e allora…».
Chissà come, nella sua alternativa e misericordiosa giustizia, il buon Dio farà i conti con casi del genere. Ma a noi, cosa ci dicono? Come ci interrogano, se ci interrogano? E cosa ci è accaduto – a parte l’umano terrore di trovarsi prima o poi in situazioni analoghe – per provare giustificazioni a due vite incrociate, fino a quel momento forse anche felici o comunque occupate dagli alti e bassi normali in tutte quante le vite, che a un certo punto decidono di «scrociarsi», di farla finita? Quanto mancherà, anche a noi che fino a poco tempo fa davanti a quella parola (eutanasia) provavamo ribrezzo, nel farci convincere in massa che tutto sommato, alla fine, è molto meglio una «punturina» che soffrire, veder soffrire, far soffrire?
Avvenire ha pubblicato una bella pagina su un aspetto della vita in Giappone: l’aumento, impressionante, delle persone sole e dei «morti in solitudine». Fenomeno chiamato kodokushi. Anziani sempre più soli e depressi: non cercano nessuno, nessuno più li cerca; in una società ormai senza legami (muenshakai) si rendono conto di non servire più, decidono di non mangiare, si lasciano morire. Ad accorgersene, poi, è un vicino. Per via del puzzo. Nessuno era disponibile prima, figurarsi per il funerale. Si dirà che il Giappone è lontano, che cultura e religione sono diverse, che da noi non c’è mai stato il fenomeno romantico dei vecchi che sentendo arrivare la morte si allontanavano per morire in una foresta. Si dirà così e ci sono ancora molte ragioni, da noi, per continuare a dirlo.
Eppure l’Italia che, post cristiani come ormai siamo quasi tutti, stiamo costruendo, in un deserto demografico sempre più triste, può anche autorizzarci a farcela quella domanda: verso quale direzione stiamo galoppando? Cosa fare per contrastare quel terrore di dover contare anche da noi, nel Paese di un famiglia sempre più svillaneggiata, gli incrementi delle morti in solitudine? Quelle che, nel Paese lontano dove un tempo il sole era nascente, oggi chiamano kodokushi? Siamo ancora in tempo a non scivolare nel baratro? A restare… umani?