Cultura & Società
La leggenda di Giuda
di Carlo Lapucci
Anche per Dante, che pure nella dannazione nobilitò diversi peccatori come Paolo e Francesca, Ulisse, Farinata, Giuda Iscariota rimane colui che ha commesso la più orribile e imperdonabile colpa e non ha neppure redenzione nella grandezza, pur avendo commesso il tradimento più grande. Del resto è l’unico essere umano di cui Cristo dia un giudizio inappellabile (Matteo, XXVI, 24): «Guai a quell’uomo dal quale il figlio dell’uomo è tradito: sarebbe stato meglio per lui non essere mai nato». Su questa base la condanna degli uomini è stata sempre inesorabile: Giuda è divenuto l’esempio della malvagità e del tradimento nei luoghi comuni della lingua, nelle metafore e anche nelle imprecazioni. Nell’iconografia gli artisti si sono sbizzarriti nel ritrarlo nel suo infame bacio con il volto più abbietto, oppure nelle pene infernali più atroci. C’è anche un altro momento: quando riprova il gesto della Maddalena dicendo che quell’unguento sarebbe stato meglio venderlo e darne il ricavato ai poveri.
Torna in mente la parabola dei talenti nella quale appare chiaramente che chi ha avuto molto di più deve rispondere, per cui l’essere chiamati non significa affatto essere gli eletti. È un mistero nel quale la mente si perde perché sconfina in zone interdette alle facoltà umane, ed è stato detto opportunamente: non giudicare.
Si vede bene comunque come la vicenda di Giuda racchiuda un motivo tra i più consistenti e fecondi riguardanti la vita, il comportamento, il destino dell’uomo. La parte leggendaria che si è addensata sulla figura del traditore di Cristo la possiamo considerare proprio una meditazione e un ripensamento su un esempio che ci riguarda tutti, in quanto tutti incapaci di rispondere adeguatamente all’esempio di Cristo, tutti più o meno vili, malvagi, traditori del Redentore che ha salvato col suo sangue l’umanità.
Un’altra versione della leggenda racconta la sua fine, ed è accennata anche nei Vangeli. Avuta la borsa con i trenta danari dai Farisei, Giuda fu preso dalla disperazione e dal rimorso e se ne andò nella notte per la campagna. Cammina cammina, andò a sedersi sotto una pianta di tamerice che allora era un albero grande come un noce. Qui, pensando al suo tradimento, non resisté alla pena e, presa una corda, s’impiccò a un ramo. La pianta alla sua morte improvvisamente si seccò e da quel giorno non cresce più alta e snella com’era, ma piccola, riarsa e contorta come ancora noi la vediamo, e il suo legno non serve a niente, né per essere lavorato, né per ardere.
L’anima ebbe orrore di quella bocca che aveva tradito con un bacio il Signore, e se ne uscì per le viscere. Così fu presa dal vento che non la lascerà mai fino all’estremo Giudizio.
Per quanto riguarda l’albero al quale s’impiccò si dice anche che sia stato il fico che come lui è traditore: infatti è facile cadere dal fico dato che i suoi rami sono fragili all’attaccatura sul tronco e si aprono improvvisamente. Secondo altre versioni s’impiccò invece al Cercis Siliquastrum che mette fiori rossi verso Pasqua senza mettere le foglie, e si chiama appunto l’albero di Giuda.
Nel Nord Europa si dice che la pianta sia stata il sambuco e qualcuno lo ripete anche da noi, tanto che quelle formazioni rugose della scorza del sambuco, che sono formazioni parassitarie, si usa chiamarle sudore di Giuda.
Ma queste leggende sono propaggini estreme di un leggendario medievale ben più consistente. Secondo le storie medievali, delle quali abbiano diverse versioni: in versi latini, in prosa e versi francesi, nonché in traduzioni italiane antiche, il padre di Giuda si chiamava Ruben e la madre Ciborea. Sua moglie fu sua stessa madre Ciborea che egli sposò inconsapevolmente dopo aver ucciso il padre, in un tragico intreccio che ricalca un poco quello di Edipo.
La madre, dopo averlo concepito, ha un sogno terribile in cui sa che il figlio sarà destinato ad essere la rovina degli uomini e il più grande dei malvagi. I genitori allora lo affidano alle acque d’un fiume come Mosè, ma come Edipo il destino lo riporta a casa. Divenuto un ministro di Pilato, conosciuto d’aver ucciso il padre e sposata la madre, si pente e ricorre a Cristo chiedendo perdono e viene perdonato e fatto discepolo. Ma la malvagità lo travolge e compie il suo tradimento. Di nuovo pentitosi si uccide, ma la terra non vuole la sua anima, né la vogliono le stelle, per cui rimane a volare eternamente nel vento (v. La leggenda di Giuda, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1968).
Questa opinione non si formalizzò tanto in scontri di pensiero, ma fu un motivo che visse ai margini dell’ortodossia e della cultura, soprattutto ebbe successo nel mondo popolare. Prese corpo nelle visioni dell’Aldilà del primo Medio Evo, in forma sporadica, in quei viaggi di santi che, prima di Dante, visitarono i regni ultramondani e, naturalmente, l’Inferno. Nella Visio Pauli Cristo invocato scende agl’inferi e, mosso a pietà, concede che tutti i dannati non siano sottoposti ad alcun tormento dall’ora nona del sabato all’ora prima del lunedì.
Non tutti i testi sono così generosi: molti limitano il riposo dei dannati a una sola festa, come Natale o Pasqua, o alle maggiori feste dell’anno liturgico, le Pasque: Natale, Epifania, Pasqua, Pentecoste. Col tempo subentrò un culto più consistente della Madonna e anche in alcune sue feste si ritenne che fosse concesso il riposo ai dannati. I tempi si sono dilatati fantasiosamente, quasi a diventare periodi di ferie: da Natale all’Epifania, da Pasqua a Pentecoste, addirittura dalla Purificazione della Vergine fino alla sua Assunzione: un semestre.
Così sia i poemi cavallereschi, sia la letteratura orale diffondono questa credenza soprattutto attraverso visioni, apparizioni, sogni in cui gli stessi dannati appaino dicendo di approfittare di una sospensione della loro pena. Primo tra costoro è Giuda insieme a Pilato, Erode, Caino, Nerone, Caifa e altri lestofanti della storia. A volte escono il sabato dalle grotte o dai vulcani in forma d’uccelli, ovvero appaiono nei laghi detti senza fondo in forma di strani pesci (pesci uomini). Anche la Navigazione di San Brandano (X secolo) contiene questo motivo, insieme ad altri testi.
Tuttavia l’argomento era a quei tempi assai scabroso: la Chiesa non era disposta a discutere su un tema scivoloso che, se onorava la pietà e la carità degli esseri umani, avrebbe portato direttamente a concedere la salvezza anche ai dannati, cosa che trova anche nel Vangelo affermazioni contrarie. Clemente d’Alessandria, ad esempio già nel III secolo aveva escluso le pene afflittive, ma evidentemente in vista d’un finale riscatto. Origene, nei confronti del quale la dottrina ufficiale ha preso le distanze per certi argomenti, sostiene che alla fine tutti saranno redenti: dannati, demoni e anche Satana, in modo che tutto ciò che venne da Dio ritorni a Dio. Dello stesso avviso furono Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa.
Quest’idea è tornata più volte, anche in tempi recenti. Leggende devote parlano di angeli che passano negl’inferi a spruzzare acqua nel fuoco dei dannati e così si narrava del Cireneo, della Veronica e di Sant’Anna. Isidoro da Siviglia ritiene che preghiere e suffragi possano giovare anche alle anime dannate. È assai significativo che il tema non abbia trovato ascolto da parte di Dante. Nella Divina commedia è ammesso che la pena sia sospesa per un condannato nel tempo in cui parla con Dante e Virgilio, ma poi i tormenti ricominciano come prima, anche se i miseri mostrano amore e umanità per i vivi. Forse a sconsigliarlo per tale via fu S. Tommaso che sostiene, con S. Bonaventura, che nell’inferno non possono esservi mitigazioni di pene e più terribile è Bernardo di Chiaravalle. (v. A. Graf, Miti, leggende, superstizioni del Medio Evo, I, pag. 241).
È questo il motivo che se non salva i dannati alle pene eterne, nobilita almeno coloro che vorrebbero non dover credere all’inesorabilità della pena, ovvero, che ci possano essere propri simili, e anche pensando a se stessi, di cui si debba dire: «sarebbe stato meglio per lui non essere mai nato».
È un problema dal quale non si esce con una generica formula freudiana: Tutta colpa del su’ babbo. E nemmeno con una scappatoia moderna: La colpa è tutta della società. È una via oscura e terribile che porta l’uomo davanti a se stesso, alla sua coscienza, a Dio. Se il mistero di questo nodo è insolubile la meditazione su un simile argomento è certamente salutare.
Sempre nelle Marche, in provincia di Macerata, c’è un paese, Visso, che conserva una moneta d’argento, detta denaro di Giuda. Infatti sarebbe uno dei trenta denari che Giuda ricevé per il suo tradimento. Si trova nella sacrestia della collegiata e non si sa se considerarla una reliquia o un corpo del reato.
Non si possono enumerare le pene e i tormenti, i modi orripilanti nella morte che sono stati attribuiti a Giuda nelle leggende, nelle predicazioni e nelle rappresentazioni artistiche. I testi sacri riferiscono in due testi diversi il suicidio di Giuda. Nei Vangeli (Matteo XXVII, 3-5) si dice semplicemente che andò a impiccarsi. Negli Atti degli Apostoli (I, 18-19) si legge che col danaro del tradimento fu acquistato il campo dove Giuda si impiccò e al momento della morte il corpo si squarciò spargendo tutte le viscere. Da questi elementi ha preso spunto la visione popolare per creare una specie di campionario delle torture di Giuda.