Cultura & Società
Il mito della «lampada perenne»
di Carlo Lapucci
Viaggiando di notte talvolta colpisce la visione improvvisa di minuscole metropoli luminose, costellate di punti lucenti come grappoli appesi nell’oscurità: piccoli, grandi, a volte sterminati e imponenti, fitti o radi, raccolti o dispersi questi agglomerati di luce prima meravigliano poi pungono a sangue col ricordo della morte. I cimiteri si sono trasformati con l’avvento della corrente elettrica sempre più in queste costellazioni tristi che appaiono nel buio vicino ai paesi e alle città.
Una volta il fenomeno non era così vistoso: i lumini esistevano, alloggiati in celle protette, ma erano di cera o qualcosa di simile, si estinguevano rapidamente dopo la visita, erano radi e di solito si vedevano nella notte solo dopo una festa, o dopo la domenica, mentre s’infittivano nei primi giorni di novembre, ma si trattava d’un fenomeno quasi irrilevante.
Forse è la comodità che ha diffuso l’usanza: per una cifra accessibile un congegno accende ogni sera una luce di memoria davanti a una tomba, cosa molto più pratica di visite frequenti: è un omaggio costante, una memoria che mostra l’interesse dei vivi per lo scomparso. Tuttavia in un fenomeno così consistente e ormai generale, non può non agire un sostrato mentale molto misterioso e primitivo. Non bastano i fiori artificiali, che pure sono anche questi omaggi d’una certa perennità, ci vuole la luce e la vogliono tutti: le tombe che hanno una piccola lampadina elettrica sono in certi casi la stragrande maggioranza.
La lampada ebbe subito una destinazione nel culto dei morti e in quello degli dei a ciascuno dei quali veniva dedicata, votata, una lampada di forma particolare. Quelle di Giove avevano il segno del Grifone, Diana aveva la mezzaluna, Esculapio i suoi due serpenti, Sileno la bocca spalancata, Nettuno il cavallo, Pan il capro con le corna e via secondo i culti. Non erano però cose per tutti: il prezzo dell’olio e d’ogni altro combustibile era carissimo e la notte s’andava a letto al buio e si dormiva.
Naturalmente il fenomeno può essere spiegato in tanti modi: gas, autocombustione, fosforo, suggestione, ma nella leggenda e nel mito a noi interessa non quello che sono realmente le cose, ma quello che l’uomo vi legge, in modo che gli oggetti, i fatti agiscono come specchi di realtà interiori che emergono, spesso a lui stesso ignote.
Tra i tanti si possono portare altri esempi dell’antichità circa la durata e la persistenza di questo mito. Secondo Pausania nel tempio di Minerva in Atene c’era una lampada d’oro inestinguibile che ardeva giorno e notte senza bisogno d’essere alimentata, alcuni dicevano per un anno, altri indefinitamente. La Luce eterna è una lampada ad olio che brucia perennemente nella Sinagoga, davanti all’Arca della Thorah, a ricordo del candelabro a sette braccia.
Sant’Agostino riferisce come diceria o fenomeno naturale (La città di Dio XXI, 6, 1) che in un tempio di Venere ardeva da tempo immemorabile una lampada perpetua inestinguibile da qualsiasi forza. «Vi è stato un tempio di Venere e in esso un candelabro portante una lucerna che ardeva allo scoperto senza che alcuna tempesta o pioggia riuscisse a estinguerla: anch’essa come quella pietra che fu chiamata Liucos asbestos, cioè lucerna inestinguibile». La credenza deriva probabilmente dai fuochi che rimangono accesi per le esalazioni di gas che escono dal terreno, frequenti in zone orientali.
Un altro famoso ritrovamento fu quello medievale, avvenuto nei pressi di Roma, di un misterioso gigante che fu identificato con l’eroe virgiliano Pallante che fu detto più alto delle mura di Roma. Figlio di Evandro cadde in battaglia ucciso da Turno. Di questa scoperta parla anche il Boccaccio nella Genealogia delle stirpi degli Dei. Accanto allo scheletro fu trovata una lucerna «ardente con perfetto fuoco, né poteva essere estinto con soffiare, né gittargli sopra acqua. Finalmente, fattole di sotto nel fondo un forame si estinse».
Si favoleggia che Cassiodoro e poi Cardano abbiano costruito lampade eterne, ardenti senza necessità d’alimento, ma nell’uno e nell’altro caso fu la voce popolare a gridare al prodigio, mentre si trattava di luci capaci di prelevare gradatamente l’olio da un serbatoio abilmente mascherato.
Oltre alle lampade possono esservi anche fiamme inestinguibili di carattere diremmo naturale, fuochi spontanei che ardono realmente senza fine. Anche l’Oriente ha moltissime tradizioni di questo genere che si spiegano di solito con le presenze di gas infiammabili sotterranei o effetti di decomposizioni. Di solito hanno cattivo odore e quindi indussero a pensare a manifestazioni diaboliche come da noi la ebbero i fuochi di Pietramala, presso il Passo della Futa.
In contesti diversi la leggenda tende a nobilitare queste manifestazioni volgendole a segni di presenze divine, magiche e ad attribuire a tali luoghi carattere sacro. Il fatto che a noi interessa è che dall’animo umano, al di là del valore reale e dalla causa di queste manifestazioni, emerge un desiderio indefinibile che prende corpo in un’immagine reale: una luce perenne, un fuoco inestinguibile, una fiamma eterna.
La lampada, il lume, nella simbologia può rappresentare la vita e l’uomo. Un tempo indicava come il focolare il centro della casa dove sedeva al lavoro la madre, intorno al quale si riuniva la famiglia per i pasti, per le veglie e ne rappresentava lo spirito stesso. Se si aggiunge che i Romani tenevano presso il focolare le ceneri dei trapassati: abbiamo così un nodo di simboli, di sentimenti, di tempi e di spazi che allaccia completamente la vita al mondo.
L’anelito fondamentale di ogni vita è quello di voler durare e durare per sempre: la vita si porta dietro tutto quello di cui è fatta: la coscienza, l’amore, la memoria, l’attività, la condizione migliore della giovinezza, la fedeltà: la fiamma ne è l’immagine più bella, una realtà luminosa, viva, che si solleva dalla materia e diviene la cosa più alta, misteriosa e spirituale quale appare la luce. Ma, come la vita, la fiamma, e con lei la lampada, è fragile, precaria, breve, tenue e porta in se il destino della propria estinzione. La fiamma eterna, la lampada inestinguibile, la lux aeterna diviene il mito più alto e segreto che ogni vivente racchiude in se, quello in cui egli stesso si rispecchia, quello in cui vede gli altri esseri viventi, il segno più alto che può offrire come immagine di se, dei suoi sentimenti, quale offerta della parte più gelosa della propria anima agli dei e a coloro che ha amato e perduto.
Al tempo stesso si constata che tuttora le chiese e i santuari ospitano, oltre alla lampada eucaristica, le lampade votive che ardono notte e giorno presso le immagini di Santi o della Vergine, o di Cristo. Quei lumi, a volte preziosi, se potevano avere in passato una funzione di sia pur debole illuminazione, oggi non hanno alcuna utilità pratica e rimangono, ricordo di usi passati quando l’uomo vicino a morire lasciava nella chiesa il manufatto provvedendo con il lascito d’una rendita a che restasse sempre accesa. Qui è evidente la trasposizione dell’uomo nell’immagine della lampada e l’idea di essere presente davanti a quel Santo in spirito nella forma della fiamma. Al tempo stesso si realizza l’omaggio a una figura sacra.
La lampada poteva infatti essere anche promessa in voto e donata al momento dell’assolvimento: bisogna tener conto di cosa rappresentava a quel tempo una luce continua laddove il buio era la realtà costante della notte. Solo le famiglie abbienti potevano infatti permettersi una lampada notturna sempre accesa che ciascun membro della famiglia poteva prendersi per le sue necessità riponendola al luogo determinato, ripetendo nel mondo domestico l’opera delle Vestali.
Da quanto si è detto è facile capire il senso di questa presenza: non solo la fiamma è un atto di fede nella sopravvivenza dello spirito del defunto, non solo, insieme alle altre suppellettili, è conforto al lungo viaggio nella morte, ma è il segno della presenza di colui che opera la sepoltura accanto alla persona amata.
Come quelle pagane erano contrassegnate degli attributi degli dei, quelle cristiane continuarono l’uso apponendo nell’argilla o nel bronzo delle lampade i simboli cristiani: soprattutto la croce o il monogramma di Cristo, ma anche l’agnello, l’ariete, la colomba, il pesce, il leone, la fenice, l’aquila, il bove, il cervo, il pellicano, il cigno, la palma, la vite, la conchiglia, l’ancora, il gallo, l’antilope e molti altri.
Nel paganesimo, ma ancor oggi nella superstizione, si riteneva il fuoco un potente mezzo di purificazione e strumento per allontanare gli spiriti demoniaci dai luoghi infestati. Per questo accendevano luci nei luoghi dove si trovavano le salme prede della morte e della corruzione. L’uso continuò nel cristianesimo, ma inizialmente non fu gradito dalla gerarchia come elemento paganeggiante. La luce accesa davanti ai morti prese tuttavia altri significati e con questi si diffuse e si estese consolidandosi anche nel rituale. Il culto dei martiri nel IV e V secolo dette alla lampada il significato di essere davanti alle spoglie di un santo e in genere i ceri posti accanto al feretro contraddistinguevano la morte di un cristiano e in particolare indicavano che il defunto era vissuto e morto nella luce della fede.
Con simboli di vita, fede e resurrezione entrano nella liturgia il cero pasquale, che accompagna la processione della Purificazione e del Corpus Domini e viene presentato agli ordinandi, all’accolito nel Battesimo, al penitente e le candele si consegnano agli sposi.
L’uso attuale delle luci davanti ai sepolcri si collega dunque a un uso antichissimo del culto dei morti ed è vicino al tributo di onore e di memoria che riconosce la Chiesa.
L’uso risale ai primi anni del secolo XIII e da quel tempo si diffuse progressivamente finché nel scolo XVII il Rituale Romano ne introdusse e disciplinò l’uso in tutta la Chiesa.
Questo tipo di arredo per l’illuminazione a olio era diffusissimo nelle chiese del passato: la cera era molto più rara e costosa. Spesso le lucerne sono veri e propri capolavori di ceramica, oppure di fusione o cesello e non di rado esistono dei lasciti testamentari che provvedono all’alimentazione. 100 lucerne di bronzo ardono ancora davanti all’Altare della Confessione in San Pietro.
Anche in un altro caso, fenomeno questa volta generale e condiviso da tutti i popoli, si verifica la rituale accensione di una fiamma che brucia ininterrottamente per un determinato periodo. La fiaccola olimpica infatti viene accesa all’inizio e spenta alla fine dei giochi per indicare un tempo sacro, o meglio tale era nell’antica Grecia, quando durante le Olimpiadi si sospendevano le ostilità e le guerre per celebrare degnamente la festa della massima divinità.
Non è uscito ancora del tutto l’uso nel culto domestico, religioso o dei morti, di mantenere acceso un lumino perenne davanti a un’immagine sacra o a un ritratto d’una persona cara scomparsa. La stessa cosa è ancora viva per le strade dove ai tabernacoli si pone spesso una luce davanti all’immagine, ovvero i devoti accendono periodicamente una candela o un candelotto che brucia fino a consumarsi.
Non di rado anche nei luoghi degl’incidenti, lungo le vie si trovano, accano ai mazzi di fiori i lumi accesi a ricordare l’amore costante di chi mantiene fedelmente la memoria dello scomparso.
Le nuove fiamme perpetue oggi si vedono apparire alte nella notte sulle torri che sovrastano le raffinerie e i pozzi petroliferi. Non hanno una particolare funzione simbolica se non quella di ricordare che la forza e lo spirito del nostro tempo deriva dal petrolio, dai gas e dagl’idrocarburi: le fiamme salgono in lingue minacciose contro il cielo fumando giorno e notte: la luce è tetra, spettrale, animata di ombre, non allude, non ricorda, non significa, illumina fantasmagorici castelli di tubi, condotte, armature, cisterne smisurate dai freddi riverberi metallici: eppure quella fiamma ha la stessa origine nelle viscere della terra di quella materia che soffiava le fiamme nelle tenebre di tanti millenni e suggerì all’uomo l’idea e il simbolo della lampada inestinguibile.