Cultura & Società
Il cipresso, decoro della vita e segno di speranza per la morte
di Carlo Lapucci
Il due novembre, Commemorazione dei fedeli defunti, la visita ai cimiteri ristabilisce un contatto con una pianta un po’ misteriosa che, ci dicevano una volta, era fatta come due mani giunte nella preghiera e si poneva vicino alle tombe perché elevasse per noi una invocazione continua al Signore in suffragio delle anime dei morti.
Meno suggestiva e meno spirituale è l’altra diceria che tuttora si ripete: il cipresso sarebbe l’elemento caratteristico della campagna toscana da tempi immemorabili e gran parte degli abitanti di questa regione vive in questa convinzione e vive benissimo, per cui è inutile minare certi orgogli generando delusioni che possono influire negativamente nell’idea di sé d’un popolo, nella sua identità e nelle radici profonde e queste belle cose che fanno bella la vita.
Per chi regge l’amaro della verità diremo che il cipresso nostrano (Cupressus sempervirens) è diventato un elemento caratterizzante del paesaggio toscano, pur essendo venuto da molto lontano. Si stima che sia arrivato in Italia dall’Asia Minore prima della colonizzazione romana, per cui è probabile che a importarlo siano stati gli Etruschi, gente stravagante e popolo d’artistoidi.
In questa terra si è ambientato bene: segna crocevia, viali, cappelle, tabernacoli, chiese e cimiteri, cime di colline, fontane. Fino a poco tempo fa godeva fama d’essere una pianta robusta, resistente alle malattie e ai parassiti, un po’ sensibile al freddo per cui non sale ad altitudini montane. Della sua presenza parlano Plinio e Cicerone, si trova raffigurato negli affreschi pompeiani e negli stucchi imperiali, raro privilegio perché l’arte figurativa antica non indulgeva a rappresentazioni realistiche di vegetali e paesaggi.
La particolarità della Toscana è quella d’aver fatto di questa pianta un elemento monumentale, d’ornamento e orientamento, mentre altrove, soprattutto nel Meridione, è inteso come pianta funerea, adatta ai cimiteri, alle cappelle e alle chiese. Qualcuno afferma che dipende da un fatto pratico: siccome lo sviluppo delle radici è verticale, come il suo tronco, si preferisce piantarlo nei cimiteri dove non danneggia le tombe. Questa frequentazione dei luoghi tristi è valsa alla pianta alcune locuzioni: andare ai cipressini (a Roma agli alberi pizzuti): finire al cimitero e l’altra dello stesso significato: andarsene col cappotto di cipresso.
Pare dunque che solo i toscani sappiano piantare i cipressi nei posti giusti, proprio quelli che agli occhi degli altri sembrano i più sbagliati: in cima ai cocuzzoli, in radure aride, in mezzo alle macchie, e i cipressi gli ci crescono per dispetto, ci stanno bene e sono come gemme del paesaggio. Il lombardo, ad esempio non ha questa grazia: li pianta tra le tombe, vicino ai monumenti con effetto deprimente. Il toscano ha capito che il cipresso è un monumento che messo accanto a un altro di pietra lo fa sparire. È una pianta che ha quindi funzione monumentale: un bel sacrario della natura messo in mezzo ai campi. A proposito di questo avete mai provato sull’imbrunire a percuotere con un bel sasso un tronco di cipresso? Ne esce fuori un nugolo di animali: ghiri, scoiattoli, uccelli che fanno somigliare quel vegetale a un grattacelo per animale abitazione, una casa fatata, animata di presenze animali ma anche misteriose.
L’interno di un grande cipresso è un mondo da scoprire nei primi anni della vita da giovanetti maschi (le ragazzette non hanno di solito questi interessi). Per un adulto è quasi impossibile entrare dentro l’intricata e fitta la ramaglia, nella quale trovano alloggio animali e uccelli d’ogni tipo: ghiri, scoiattoli, lucertole, moscardini e là dove è più fitta e buia la chioma, si possono trovare a passare il giorno anche rapaci, come la civetta, il gufo, l’allocco; poi uccelli di tutti i tipi che frullano via al minimo rumore sospetto e nidi d’ogni genere: con le uova o i pulcini, appena abbandonati o vecchi che si disfanno lentamente.
Le grandi piante vicine agli abitati ospitano anche strani oggetti, spesso antichi, rovinati. I rami di questa pianta come nasse hanno la capacità di trattenere quello che viene lanciato da terra e spesso senza lasciarlo ricadere, nonostante il vento e i lunghi anni. Quasi tutto ciò che è stato tirato tra i rami, o portato dal vento, si ferma in mezzo a quelle sbarre resinose, profumate e vi rimane: bastoni, scarpe vecchie, ombrelli, palle, giocattoli, bussolotti, tegami rotti, padelle; dopo la guerra si potevano trovare cose che vi erano state nascoste, o spedite dentro la chioma magari per riprenderle in seguito, come armi e munizioni. Morte o vive il cipresso assorbe tutte le realtà che entrano nella sua enorme gabbia per rilasciarle disfatte solo dopo lunghi anni, o mai per tutta la sua lunga vita.
È vero che in un grosso cipresso si può nascondere anche una persona e questo ha permesso in passato scherzi anche pesanti da cui forse è nata la credenza nei Luminelli, anime vaganti che si diceva abitassero dentro i cipressi con un lumino acceso e di notte spaventassero i passanti chiamandoli per nome, oppure con urli, risate, muggiti.
Tuttavia l’albero non è come il crisantemo che è ricercato solo il due novembre e in altri tristi occasioni e non è amato in genere fuori del sua ambiente mortuario. Il cipresso, pur mantenendo la sua austerità, non dispiace (non disgarba, dicono i toscani) fuori del suo ambiente dove si trova pressoché costantemente: orna senza invitare necessariamente alla mestizia qualunque angolo di una strada, d’un giardino, d’uno spazio campestre e si adatta benissimo alle funzioni di rompivento disposto in lunghissime file, a quelle di cippo per segnare i confini, a fare ombra nei viali come i celebri cipressetti di Bolgheri e delle strade collinari della campagna senese.
L’elemento caratteristico è la forma ad ago, perfetta, scura, compatta, decisa che divide il paesaggio con un linguaggio misterioso, ma coinvolgente: è quello che in Toscana si chiama cipresso maschio, detto pyramidalis, mente il cipresso a forma aperta è detto cipressa, o cipresso femmina, horizontalis di tipo selvatico. In realtà sono due varietà con portamenti diversi: anche se i cipressi la fanno da padroni sul terreno e nei dipinti, sono frequenti anche le cipresse, soprattutto nelle cipressete.
È evidente che alcune caratteristiche di questo albero hanno esercitato particolari suggestioni: ha un legno resinoso immarcescibile, particolarmente resistente all’umidità, tanto che veniva usato per fare le bare fin dai tempi degli egizi i quali pare lo preferissero alle altre piante. Ma ci si fanno anche mobili, soprattutto infissi resistenti alle intemperie.
Il profumo che emana, soprattutto quando è investito dai raggi del sole, lo fa simbolo di salute, di omaggio d’incenso rivolto al cielo come un turibolo fumante. Il turibolo appunto, oltre alla forma di pina, anch’essa resinosa e profumata, assume spesso quella stilizzata del cipresso, assai vicina a quella della fiamma, che giustamente soggiorna nei cimiteri quasi per sollevare una preghiera continua delle anime anelanti a raggiungere la felicità del Paradiso.
Si vuole che la radice della pianta raggiunga profondità considerevoli: il ramo principale affonda nella terra almeno per la stessa lunghezza in cui l’albero si protende nel cielo, mentre le diramazioni secondarie scendono ancora di più. Per questo è stato considerato nel paganesimo, insieme al tasso, la pianta che è più in contatto con le regioni sotterranee, i mondi inferi ed era consacrato al culto di Plutone, sovrano del regno dei morti, collegamento alla ritualità funebre che ancora conserva. Uscendo dal regno delle tenebre e dei morti sale con slancio verso il cielo, segnando un altro simbolo della vita e dell’uomo.
Una volta tagliato il tronco, il ceppo del cipresso non metterà virgulti: sulla base di questa considerazione il cipresso fu simbolo della tristezza; ma il taglio definitivo che la pianta fa con la vita, lo rende anche immagine d’immortalità, proteso come sembra col suo ago solitario verso il cielo. Ricordando che il cipresso non torna a vivere una seconda volta attraverso i virgulti della ceppaia, si usava piantarlo per solennizzare la nascita di una bambina, pegno della sua futura fedeltà, o in occasione di un fidanzamento, sempre con lo stesso significato. Anche il passaggio di un grande personaggio da un luogo o da una terra, si usava solennizzare piantando il cipresso, elevando un monumento vivo di questo fatto, destinato a durare secoli e che non potrà mai essere sostituito perché non rigenerabile.
Rimane sempre una pianta seria in qualunque ambiente si trovi, essenza che incute rispetto, invita al raccoglimento, alla riflessione, e si presenta come una serie di cifre, di simboli delle realtà fondamentali dell’uomo: vita, morte, preghiera, meditazione, immortalità, offerta (di ombra, di profumo), solitudine, poiché spesso si trova solo, al di sopra di piante che difficilmente raggiungono la sua altezza.
Vi sono poi leggende legate a piante di cipresso pluricentenarie della quali si dice che dopo la loro morte avverrà la fine del mondo. Di altre si dice che furono piantate da personaggi storici antichissimi ovvero leggendari: Carlo Magno, il paladino Orlando, Attila, perfino Numa Polpilio e alla loro fine è collegata qualche sventura per il mondo.
All’inizio del Novecento un fulmine abbatté la cima del cipresso, ma più grave fu l’opera dei tedeschi nel 1944: piazzato un pezzo d’artiglieria nei pressi della chiesa, i militari minarono il tronco. Della pianta rimasero il tronco e qualche ramo laterale. Oggi la pianta ha ripreso in parte il suo portamento. Sulla pianta si narra una leggenda.
Antonino si pose allora a pregare e poi, attendendo che gli altri avessero finito il banchetto, s’addormentò sull’erba, là dove aveva mangiato. Passò del tempo, ma l’ombra del cipresso non si mosse, proteggendo dal sole il sonno del Santo. Fu quando arrivarono i prelati e gli altri invitati al pranzo che Antonino si ridestò. Allora tutti videro muoversi l’ombra e riprendere la direzione naturale nei raggi del sole, dal quale fino ad allora aveva protetto il santo vescovo.
(Da: C. Lapucci, Leggende della terra toscana, Polistampa, Firenze 2011).